“Nella Puglia Dauna” di François Lenormant


Dopo Taranto e Lecce, questo mese diamo spazio nella rubrica Cent’Anni di Solitudine ad alcune pagine di uno dei più importanti testi sulla storia di Foggia e della Capitanata, il diario di un viaggio che l’egittologo francese François Lenormant compì pochi mesi prima della morte, avvenuta nel 1883, dato alle stampe con il titolo À travers l’Apulie e la Lucanie. L’edizione consultata è quella tradotta nel 1917 da Michele Vocino, con il titolo Nella Puglia Dauna, per la Rivista «Apulia» Editrice di Martina Franca, all’interno della «Piccola collana di Apulia» dove trovava spazio una «serie di studi notevoli che i tempi nuovi impongono per la serietà, dignità e incremento della cultura pugliese». Pur affermando che «Nell’attuale stato di cose io non consiglierei mai d’intraprendere un giro in Puglia e in Basilicata se non a chi abbia già fatto in Oriente un tirocinio nel mestiere di viaggiatore», Lenormant esaltava «la cordiale e simpatica accoglienza, l’interessamento a facilitare le mie ricerche» delle popolazioni locali. In queste righe si possono notare alcuni temi ancora oggi importanti per la vita in Capitanata: l’agricoltura, i rischi di incendi e alluvioni, le grandi ricchezze della terra, la premura nel costruire case in piena zona sismica.

La vasta pianura del Tavoliere, la cui monotonia non è attenuata abbastanza dall’orizzonte di montagne che la chiude per due lati, è animata solamente nei mesi d’inverno dagli innumerevoli armenti che scendono dalle montagne; il resto dell’anno non è che un deserto dove non si scorge un solo essere vivente.

Il suolo è assai fertile: messo a coltura quel piano potrebbe essere il granaio d’Italia, o diventare un giardino di vigne e d’alberi fruttiferi, come la Provincia di Bari che gli vien subito dopo verso sud-est, il cui terreno è della medesima natura. Invece esso non è che una steppa nella massima parte incolta, non atta che alla pastura, dove i dissodamenti si vanno sviluppando solo da qualche anno. È l’uomo che ha ridotto questa fertile provincia in tale stato, effetto dell’avidità fiscale e della vergognosa ignoranza economica dei governi che hanno pesato per quattro secoli nel Napoletano, facendo arretrare verso la barbarie la più bella regione della penisola italica, mentre il resto d’Europa s’avanzava nelle vie del progresso e della civiltà (pp. 28-29)

Per aumentare le entrate della dogana di Foggia gli agenti del governo spinsero con tutti i mezzi gli abitanti degli Abruzzi a sostituire il facile allevamento del bestiame in mandrie nomadi alla rude fatica della cultura dei campi, assegnando anche un premio alla pigrizia. Al tempo di re Alfonso novantamila pecore discendevano annualmente in Capitanata: nel 1592 ne vennero quattro milioni e mezzo; e per provvedere al nutrimento di tante bestie nell’estate il pascolo non era solo limitato alle vette dei monti non atte ad altro, ma invase anche d’ogni parte i terreni fin allora ben coltivati, che davano ricchi raccolti di vino, d’olio e di grano. I danni prodotti dalle pecore e dalle capre insieme con gl’incendi causati dall’incuria dei pastori, o anche da essi stessi di proposito appiccati, rovinarono le selve, gradualmente portando al disboscamento e al denudamento dei pendii ed aprendo il fondo delle vallate ai guasti capricciosi dei torrenti che in tal modo li resero inabitabili. Il male così prodotto sarà forse irreparabile per sempre! (p. 37)

Foggia conta oggi ben trentamila abitanti circa. Distrutta completamente da un terremoto nel 1731, è una città in tutto moderna, propria ed animata, che forma la delizia dei buoni borghesi e dei commessi viaggiatori. Le vie sono notevolmente larghe. Le case solidamente costruite, con tetti piatti, hanno generalmente un sol piano sul pian terreno, ciò che manifestamente è fatto per evitare, in caso di un nuovo terremoto, il rinnovarsi d’un disastro pari a quello che la città ebbe a subire or è un secolo e mezzo (p. 44).