“Le proletarie del Tavoliere” di Antonio Lo Re

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Riportiamo questo mese per la rubrica “Cent’anni di solitudine” alcuni stralci del volume Le proletarie del tavoliere, scritto da Antonio Lo Re (docente di Agraria e direttore dell’Orto botanico di Foggia, nato a San Vito dei Normanni nel 1859 e morto a Foggia nel 1920) e pubblicato nel 1910 dalla casa editrice E. Trefiletti di Pescara. Si tratta, va detto subito, di un libro che è lo specchio dell’epoca in cui è stato scritto: non mancano infatti frasi e pensieri che mettono in luce un’idea della donna come soggetto ‘inferiore’ e un’intera tirata contro il «pericolo» rappresentato dai sindacati che all’inizio del Novecento promuovevano tra le fasce più povere della popolazione l’occupazione delle terre e l’educazione come mezzo per raggiungere una vita migliore. L’intento dell’autore è comunque quello di raccogliere le diverse ‘tipologie’ di donne presenti nelle campagne della Capitanata e dell’Abruzzo, dalla mandriana alla terrazzana alla castagnara e via dicendo. Resta, tuttavia, al di là delle opinioni dell’autore, uno spaccato realistico sulle condizioni di vita delle contadine e delle donne dei piccoli paesi della Puglia e del Sud Italia in genere.

«Le “compagnie” delle operaie rusticane scendono, quasi tutte, dalla montagna per i lavori delle grandi aziende, ove dimorano; i quali cominciano dalla potatura per finire alla trebbiatura, cioè dal febbraio all’agosto, senza interruzione, con un salario giornaliero di 70 o 75 centesimi. Però il grande fittaiuolo o proprietario di Puglia per la nuova alta tariffa del lavoro delle donne, ricorre ora ad interruzioni fra un’opera agraria e l’altra con una involuzione dannosa della produzione e della distribuzione della ricchezza.

La moglie del terrazzano lavora tutto l’anno, ora raccogliendo erbe, funghi ed asparagi, ora capperi e fuffole (asfodeli secchi), ora spigolando, ora costruendo scope di cannucce, fiscelle (cesti da caseificio), corde di giunchi, ora impagliando seggiole. Altrimenti si occupa a vendere il prodotto della caccia fatta dal marito e tutto ciò che egli ed ella abbiano raccolto, più o meno onestamente, e conservato. Se il marito è un versuriere, ella lavora il campicello e ne vende, girando per la città, i prodotti: broccoli, fave fresche, piselli, ravani, ecc.».

«Il guadagno della donna diventa pertanto un integrale indispensabile della economia domestica: e risulta, per conseguenza, che un contadino, celibe per principio, non potrebbe essere che un suicida per fame. E potrebbe risultare anche (o io oso troppo nel sillogismo) che il maschio proletario qui s’aduggi sul lavoro della femmina, produttrice di latte per i figli, di minestra pel marito, di fatiga per la casa, in una dedizione di tutto l’esser suo, che forse le dee venire dalla tradizione della legge del Vangelo, radicata nell’anima sua. Povera e semplice anima cui è serbato ancora il grande destino degli umili!».

«La padrona assegna alla castagnara dieci o quindici lire al mese, il vitto e l’alloggio; ma ogni sera le chiede strettissimo conto delle misure di frutta che le ha consegnate; e, se v’è ammanco, in fin di mese ne fa inesorabilmente la ritenuta. E poi, che vitto! e che alloggio! All’avemaria, dopo che le fornatare e i zitielli e i ragazzi che la padrona ha assoldati hanno reso i conti della giornata, tutti si raccolgono attorno a una povera tavola pel pasto comune: grandi piatti di legumi o patate o maccheroni mal conditi e un bicchiere di pessimo vino. Poi gli uomini vanno a dormire alla taverna; e le donne devono riposare in quell’unica stanza, in non più di due grandi letti, promiscuamente. E l’indomani, alle sei, da capo in istrada, sotto tutte le intemperie.

Nell’ultima settimana di Aprile la colonia dei castagnari lascia Foggia per recarsi all’Incoronata a riprendere il suo mestiere. E là, in campagna, la vita è meno triste: e la sera fornatare e zitielli fanno lunghe passeggiate nel bosco e la nostalgia del loro paese di attenua, poi che si avvicina il benedetto momento del ritorno, il 14 Giugno».