“Farfalle di spine” a cura di Valeria Traversi
Concludiamo questa tre giorni dedicata ai libri segnalati per la Giornata della Memoria con una novità della casa editrice Palomar, il secondo volume della collana di antologie poetiche Le Ciliegie, di cui solo venerdì scorso avevamo segnalato il primo, a cura di Francesco Medici, sul Circolo di Gibran. Per oggi, Giornata della Memoria, segnaliamo dunque l’antologia Farfalle di spine. Poesie sulla Shoah (pp. 250, euro 16) curata da Valeria M.M. Traversi. La curatrice non è del resto nuova a contributi sulla scoperta della letteratura concentrazionaria, considerando che la sua stessa tesi di laurea in Lettere riguardava la letteratura di Primo Levi e la Shoah, mentre nel 1999 ha pubblicato il saggio I rumori stridenti della scrittura. Scrivere dopo Auschwitz. Altri ambiti della letteratura italiana del Novecento sono stati invece affrontati in altri suoi saggi pubblicati in rivista, mentre nel 2008 ha curato per Palomar un’edizione de Il dispaccio di Venere. Epistole eroiche di Pietro Michiele. Farfalle di spine. Poesie sulla Shoah è stato presentato la scorsa settimana presso il Salone degli Affreschi dell’Ateneo barese, alla presenza dei docenti universitari Pasquale Voza e Giuseppe Farese, mentre alcune poesie presenti sull’antologia sono state lette da Ermelinda Nasuto e il violinista Giovanni Zonno ha concluso la serata con alcuni brani di musica concentrazionaria.
L’antologia è aperta da una ampia introduzione della curatrice, che si sofferma in particolare sull’importanza della poesia per la conservazione della memoria della Shoah, accompagnando in questo compito la storia (decisamente profondi in questo senso i versi di Wislawa Szymborska: «La storia arrotonda gli scheletri allo zero. / Mille e uno fa sempre mille. / Quell’uno è come se non fosse mai esistito»), e anzi, sottolinea Traversi, «delle scritture letterarie, non documentali, proprio la poesia è il genere che più si allontana dalla storiografia», e questo nonostante «il rischio, quando alla memoria si dà voce attraverso le forme d’arte, di estetizzare l’evento come ispiratore di arte». Un rischio, tuttavia, che vale ben la pena correre, specialmente se l’alternativa si chiama silenzio, quello che, per dirla con Primo Levi, «se non trovi nessuno [con cui parlare] la lingua ti si secca in pochi giorni e con la lingua il pensiero». L’antologia è divisa in tre sezioni, tutte ben caratterizzate e assolutamente interessanti, che raccolgono al loro interno poesie di autori diversi, e di diversa estrazione, poste in ordine cronologico. Nella prima sezione, “I testimoni diretti. Voci dai ghetti e dai Lager”, raccoglie i brani poetici di coloro, tra poeti già affermati, o anonimi, o sopravvissuti che solo col tempo hanno trovato la forza di ricordare la loro prigionia nei campi di concentramento o nei ghetti. In questa sezione emergono a nostro avviso tre brani di spiccata importanza storica. La lirica che apre l’antologia, ad esempio, è firmata da Gertrud Kolmar, figlia di un ebreo assimilato, e racconta con straziante precisione la realtà dei campi di internamento fin dal 1933, con Hitler cancelliere, con l’apertura del campo di Dachau presso Monaco di Baviera («immobili, bollati a fuoco, pieni di tagli e screpolature, / come animali da macello che aspettano il mattatore»). Altro caso rilevante è quello di Elisa Springer, viennese deportata ad Auschwitz, e, sopravvissuta al Lager, sposata con un italiano e vissuta in Puglia. Qui, dopo aver nascosto per oltre cinquant’anni i segni della prigionia, ha rotto negli anni Novanta il suo silenzio per non lasciare perduta una testimonianza preziosa dell’Olocausto, esprimendosi con una prosa fortemente lirica (Il silenzio dei vivi, Marsilio 1999). Ma la testimonianza diretta che più commuove e disarma in questa prima sezione è quella di Teddy, nome che è l’unica traccia rimasta di un ragazzino rinchiuso nel Lager dei bambini di Terezin, che con le parole semplici di un fanciullo lamenta le estreme condizioni di vita nel campo e sa dire la verità più lacerante: «Qui, a Terezin, la vita è un inferno». La seconda sezione, “I testimoni indiretti. Voci fuori dal filo spinato”, compende i testi poetici di tre poeti ebrei di lingua tedesca scampati alla prigionia ma che vissero il “dopo Auschwitz” con grande travaglio, assumendosi «la responsabilità di dare voce a chi era stato cancellato dal mondo»: si tratta di Paul Celan, Nelly Sachs e Peter Weiss. La terza e ultima sezione comprende invece poesie di autori non ebrei, tra i più influenti della scena poetica internazionale del Novecento (Brecht, Pasolini, Etvushenko, Szymborska, Sereni e poeti israeliani nati successivamente alla Shoah). Ognuno di loro, scrive Valeria Traversi, è riuscito «a penetrare un’angolazione particolare della tragedia scegliendo ora di mettere al centro dell’attenzione i bambini con la loro disarmante fantasia e tenerezza […], ora di dar memoria a luoghi e vicende meno noti ma non meno importanti […], ora di avviare una riflessione più generale sui risvolti etici e poetici della Shoah».
Stefano Savella