“Sahib” di Nenad Veličković
La Bosnia è rapidamente passata, come era del resto prevedibile, da scenario di guerra dall’altra parte dell’Adriatico all’oblio. Agenzie internazionali, organizzazioni non governative e apparati militari sembrano essere gli unici occidentali a occuparsi (senza troppo successo) di questa terra. Ma forse nessuno tra i pochi saggi apparsi sul decennio post-bellico di Sarajevo è riuscito a far immaginare così bene la realtà bosniaca odierna come il romanzo di Nenad Veličkovic, Sahib (impressioni dalla depressione) (pp. 164, euro 15), arrivato in Italia per merito delle Edizioni Controluce (gruppo Salento Books, Nardò). Non si tratta della prima opera dello scrittore e docente universitario 48enne di Sarajevo tradotta in italiano: nel 1995 era apparso Il diario di Maja per Editori Riuniti, mentre nel 2008 la Forum Editrice di Udine aveva pubblicato Il padre di mia figlia. Sahib (‘padrone’, termine con cui in India si indicavano i colonizzatori britannici) è lo pseudonimo dell’autore delle settantasette e-mail di cui si compone il romanzo, un giovane inglese che scrive al compagno George durante il suo anno di permanenza a Sarajevo all’interno di una agenzia internazionale che fornisce prestiti alla popolazione locale o progetta attività e azioni per il rilancio dell’economia dello stato balcanico. Fin dalle prime battute del romanzo, fin dai primi giorni trascorsi dal protagonista britannico in una terra considerata del tutto estranea alla propria cultura, appare chiaro però che le finalità dell’organizzazione internazionale sono ben altre: operare, cioè, in modo tale che la ricchezza che si dovrebbe profondere in un paese ancora sommerso dalle mine antiuomo e da una povertà dilagante, torni per mezzo di commissioni, stratagemmi finanziari, corruzione, negli stessi paesi occidentali di provenienza degli addetti (che girano a Sarajevo in jeep, vivono in un quartiere isolato, organizzando party con ambasciatrici e ufficiali militari).
Il meccanismo è semplice, «anzi è semplicissimo», scrive il protagonista-narratore al compagno in Inghilterra per spiegargli il «cerchio rettangolare» delle attività delle agenzie internazionali: «Alcuni Paesi sviluppati vendono le armi ai Paesi sottosviluppati. Così questi ultimi si distruggono a vicenda e i Paesi sviluppati ricostruiscono i Paesi sottosviluppati con tecnologie arretrate, ottenendone in cambio le materie prime, l’energia o lo spazio per le basi militari». Ma sulla strada del cinismo, dell’indifferenza, della superbia occidentale incarnata dal protagonista si frappone un ostacolo, un uomo, Sakib, il suo autista, nei confronti del quale si riverserà tutto l’amore e tutto l’odio verso Sarajevo. Sakib è una voce della coscienza: davanti alle spiegazioni ciniche, alle dissacranti teorie sui programmi di sviluppo per la Bosnia formulati dal protagonista, Sakib pone il corpo della drammatica realtà, rappresentando l’emblema di un popolo ancora stordito dalla guerra, e soprattutto capovolge gli interrogativi facendo luce sulle colpe dell’Occidente nella gestione bellica e post-bellica. Con una dialettica stringente che irrita a più riprese lo Sahib della situazione, fino a rischiare il licenziamento in tronco, il fiero Sakib non arretra di un passo e, in un finale palpitante, riuscirà a persino a deviare il corso della vita del protagonista, dentro un Inferno ancora più Inferno, ma dietro le cui sembianze potrebbe nascondersi, forse, un paradiso. Nei suoi giudizi sfrontati contro la Bosnia (tanto da voler intitolare un suo futuro libro su quella terra Il cesso d’Oriente o La fogna della civiltà), nella sua satira così manifestamente gay verso i suoi stessi collaboratori della missione umanitaria (scrive a proposito del collega italiano di sinistra: «D’altronde con il comunismo italiano c’è da stare un po’ attenti. Quale italiano normale preferirebbe andare in giro con Che Guevara sulla maglietta al posto di Leonardo?»), il protagonista sembra incarnare un prodotto di laboratorio, che raccoglie ed esaspera tutti i cliché del consumismo occidentale, ma con un piccolo particolare: che il germe della presunta superiorità occidentale, al di là dell’ironia di questo romanzo, sia stato già inoculato e abbia abbondantemente proliferato.
Stefano Savella