Intervista a Raffaello Mastrolonardo
Pubblicato nel 2008 dalla Besa Editrice, Lettera a Léontine è riuscito a suscitare l’attenzione di molti lettori e un intenso passaparola, sino a diventare un piccolo caso editoriale. Così, grazie anche all’intermediazione dell’Agenzia Letteraria di Loredana Rotundo, l’esordio narrativo di Raffaello Mastrolonardo è stato adesso riproposto dalle edizioni Tea in una nuova ed elegante veste grafica (pp. 316, euro 10).
Un’esistenza alla ricerca del bello e di se stessi quella del protagonista del romanzo, ed è tra queste due coordinate che si consuma la promessa d’amore tra lui e Léontine; la fascinosa e volitiva donna non potrà che minare la mendace armonia su cui poggia la quotidianità di Piergiorgio, medico affermato e padre premuroso, oltre che esteta narcisista, ammaliato dall’arte e dalla musica, dall’incanto della sua Puglia e dalla dolcezza dei ricordi. «Tu hai smosso un equilibrio che pigramente mi ero costruito, e la vita artificiosa, appagante, la tana del mio letargo emotivo, l’ho improvvisamente vista nella sua luce e dimensione reale».
Scrittura limpida, piana, quella di Mastrolonardo, che si accende di lirismo in alcuni brani (il Prologo in particolare), sino al drammatico e inatteso crescendo del finale, dove l’ingombrante voce dell’io narrante si fa meno sicura, e dunque più struggente e spontanea.
Si aspettava un tale successo della sua opera e cosa, secondo lei, lo ha decretato? Solo la brama d’amore e la sensibilità alla sofferenza dei lettori?
Sapevo d’aver scritto un bel romanzo, ma non m’aspettavo tanto successo. Le componenti sono molteplici: il candore narrativo, il fascino dell’amore, la complessità della trama, la molteplicità delle passioni, ma soprattutto la bellezza del linguaggio. Libeccio, uno dei protagonisti del romanzo che, come altri, esiste davvero mi ha detto: “Sai perché Léontine piace così tanto? Perché tu non l’hai scritto da autore, ma da lettore. Hai scritto il romanzo che avresti da sempre voluto leggere”. Ed ha ragione.
Oltre a quello per Léontine, Piergiorgio manifesta un intenso amore per la figlia, per l’arte, per la città di Bari e per la sua provincia: quanto vi è dei sentimenti dello stesso autore in queste emozioni?
Tutto. Non ho difficoltà ad ammettere l’autobiografismo nel mio romanzo. La storia d’amore fra Lea e Piergiorgio è frutto di fantasia. Tutto il resto è vissuto: De Nittis, la musica, l’amore per il mare, per Bari e per la Puglia, per mio padre, per le mie figlie, le poesie, i luoghi. Tutto. Il lettore percepisce la sincerità e l’apprezza, percepisce la passione e la condivide.
È una storia d’amore, ma anche un romanzo d’analisi che sottolinea l’importanza di ripercorrere il proprio vissuto per riconoscersi e dell’uso terapeutico della scrittura. Il referente principale di ogni nostra azione siamo, dunque, sempre noi stessi?
Certamente. Stavo per dire “ovviamente”, ma di ovvio purtroppo non c’è nulla. È difficilissimo ripercorrere e soprattutto riflettere sul proprio vissuto, siamo spaventati dall’idea di farlo, dal timore di scoprire cose sgradite. Talvolta ci riusciamo, in questo la scrittura è assolutamente d’aiuto, ed ecco che nasce un romanzo come il mio. Il solito Libeccio, psichiatra, ha detto: “I sei mesi in cui hai scritto Léontine ti sono valsi più di dieci anni di terapia da me…” . Ed anche in questo ha ragione.
La trama fa pensare a Non ti muovere della Mazzantini: anche lì il protagonista è un medico sposato che si innamora di una donna non propriamente bella… Quali sono i suoi riferimenti letterari?
Tanti, troppi per poterli citare. Ho il mio scaffale dei “libri per la vita”, ma è una selezione limitativa ed ingiusta. La verità è che ci sono quarant’anni di letture incessanti, bulimiche, tutte sedimentate nell’anima, talvolta nascoste o apparentemente dimenticate. Ma sono tutte lì…
Giovanni Turi