“Vicolo dell’acciaio”: intervista a Cosimo Argentina

Con Vicolo dell’acciaio (Fandango libri, pp. 264, euro 15) Cosimo Argentina dà prova definitiva, qualora ve ne fosse ancora bisogno, della sua piena maturità narrativa: è un romanzo crudo e disilluso, in cui c’è un senso d’attesa gravoso e disperato; si tratta di un’opera impastata, come il linguaggio impiegato, di vita concreta e quindi scostumata e sorprendente.

Mino Palata è il figlio del Generale, un operaio dell’Italsider di Taranto, un prima linea il cui destino tragico pare ineluttabile. Mino studia legge, per lo meno ci prova, ma le sue vocazioni sono altre: osservare il microcosmo di via Calabria, ad esempio, «dove il novanta per cento delle famiglie ha il capo che se la spassa nel siderurgico»; oppure trasformare in scrittura quelle angosce che solo la bella Isa sembra saper sedare. Ma il demone che gli si agita dentro non è che il riverbero della realtà e incombe su tutti, nonostante le strategie che ciascuno adotta (come l’abnegazione famigliare della madre, o la tacita determinazione del Generale, o il viscido cinismo di Dòminik).

«Perché, onesto, noi siamo davvero per gli dèi come mosche pe’ l’ panarijedde… ci schiacciano così, giusto per passare il tempo. La loro non è crudeltà, è solo una realtà posta su una dimensione differente, perciò…». E talvolta ad assumere le sembianza di una divinità, o meglio di un mostro mitologico, è proprio il siderurgico, che «non dorme mai e si beve le anime e i cristiani»; ovvio allora che Mino e sua madre siano devoti al capofamiglia, un eroe che ogni giorno scende sul campo di battaglia, entra nelle viscere del mostro senza alcuna garanzia di farvi ritorno ed «è grato agli arrivati che gli somministrano lo stipendio… il salario è tutto».

C’è una forte continuità nella sua produzione letteraria, ad esempio è quasi costante la centralità del capoluogo ionico: sono solo le ragioni biografiche a renderlo il suo scenario prediletto? È una coincidenza che il padre del narratore si chiami Camillo come il protagonista di Cuore di cuoio?

Non preordinata, ma alla fine credo di aver scritto una sorta di quadrilogia tarantina dove Il cadetto è stato il romanzo della scoperta, Cuore di cuoio quello dei sogni, Maschio adulto solitario quello degli incubi e Vicolo dell’acciaio quello del dolore. Per un po’ mi allontanerò da questa lingua e da queste tematiche… ma siccome a volte ritornano…

Oltre al numero dei caduti (troppi in entrambi i casi), cosa le ha ispirato il parallelismo tra il lavoro nel siderurgico e la guerra? Davvero non c’è risposta plausibile al ricatto occupazionale e a sollevare i problemi ambientali sono solo ideologi, ecodoppler e adepti annoiati?

Sono sensazioni forti, indimenticabili. La letteratura di guerra resta la migliore in assoluto e noi narratori di oggi siamo – per fortuna – tutti un po’ orfani degli eventi bellici del secolo scorso. Ma in effetti il parallelo si può allungare a molte vicende umane. È la lotta per la sopravvivenza, per il pane e il dominio… se vogliamo sempre la stessa solfa. Quanto al ricatto occupazionale e all’ambiente io ho scritto di quelli avvinti alla catena. Gli altri facciano i passi che devono fare, ma un prima linea spingerà carrelli di ghisa ancora per molto.

Nella bella intervista rilasciata a Fahrenheit su Radio 3 ha confidato di aver scritto Vicolo dell’acciaio ben prima della pubblicazione del fortunato romanzo della Avallone, Acciaio; quali le vicende editoriali che ne hanno ritardato l’uscita?

Andrebbero chieste alla Fandango. Forse erano usciti con Foschini e non volevano pubblicare un altro libro sull’ILVA così a breve. Comunque il mio e quello della Avallone sono libri talmente diversi che non si pesteranno mai i piedi.

La sua ricerca linguistica si accosta sempre più a un gergo italo-dialettale dalla forte carica espressiva e realistica: non teme di essere tacciato di provincialismo o di risultare ostico a chi non ha alcuna confidenza con il tarantino?

Sì, lo temo, ma mi disinteresso della questione. Ognuno cerca il proprio linguaggio e il mio, sotto certi versi, è questo. Lascerò per strada lettori? Può darsi. Io però amo anche le sfide e in futuro tenterò altri linguaggi cercando di fare le cose al meglio delle mie possibilità.

«E poi mi lascio andare su un foglio di carta dove narro una storia, una distorsione, un semplice schizzo d’inchiostro che possa trasformarsi in una via di salvezza». Anche per lei, come per Mino, la scrittura ha una valenza catartica?

Sì, senza dubbio. Scrivo perché mi viene facile, so fare solo quello, e poi perché in questo modo tengo a bada le creature oscure che mi trascino nel fondo dell’anima da 47 anni.

Giovanni Turi