“Alboràn”: intervista a Emiliano Poddi
Emiliano Poddi, nato a Brindisi nel 1975, è stato tra i candidati al Premio Strega 2008 con il romanzo d’esordio: Tre volte invano (Instar Libri); c’era dunque una legittima aspettativa riguardo alla sua seconda prova letteraria, e non è stata tradita.
Quella di Alborán (Instar Libri, pp. 194, euro 13,50) è una storia delicata, intessuta di suoni e di silenzi: il protagonista è un autore radiofonico che, dopo aver perso il nonno da bambino, non ha saputo evitare di chiudersi in se stesso, timoroso che tutti gli affetti siano destinati a dissolversi troppo presto. La sua fragilità e la sua incertezza hanno finito per compromettere anche la relazione con Stefania: «aveva di continuo la sensazione che io tendessi a scapparle via, verso un luogo che nessun altro poteva raggiungere, e chissà se io stesso c’ero mai arrivato»; ma questa volta Luca è disposto a rischiare… Durante l’ultima puntata del suo programma, Space Bottle, ripercorre il recente passato e si prepara a giocare il tutto per tutto; al suo fianco l’anziano tecnico del suono Ezio, l’unico che abbia saputo colmare parte del vuoto pneumatico che lo circonda – l’unico se non si tiene conto, ovviamente, di Bruce Springsteen, la cui voce roca sa strappare Luca dalla paura e talvolta inaspettatamente indicargli la via.
Il suo è un romanzo sentimentale senza essere lezioso, ironico senza rinunciare alla profondità, nostalgico e insieme attuale: come e quanto si è applicato per ottenere un tale equilibrio strutturale ed espressivo?
Ho cercato di ispirarmi alla radio, che a proposito di equilibrio è un luogo piuttosto interessante. In uno studio di emissione ci sono i doppi vetri, la moquette, le luci soffuse e le pareti insonorizzate; ma questo ambiente ovattato è concepito allo scopo di inviare nell’etere un segnale forte e chiaro, come si dice. Trovo che i nostri ricordi più preziosi abbiano qualcosa di radiofonico: sono intimi e al tempo stesso orientati verso gli altri, nel senso che spesso ci viene voglia di raccontarli. Quanto alla possibilità di essere nostalgici e insieme attuali, un grande narratore del secolo scorso ha sistemato la questione una volta per tutte. La tradizione, ha detto Eduardo De Filippo, è la vita che continua.
I personaggi intorno a cui ruota Alborán sono solo quattro: Luca e il nonno, Stefania ed Enzo, e questi ultimi vivono soprattutto nelle pause del narrato. Come mai questa scelta ‘minimalista’?
In effetti me lo sono chiesto, tanto più che anche nel primo romanzo non è che ci fosse una gran folla di personaggi. La risposta che mi sono dato – provvisoria come la maggior parte delle risposte – è che i romanzi somigliano ai loro autori molto più di quanto essi siano disposti ad ammettere. Non è solo una questione di autobiografismo. Voglio dire che certamente Tre volte invano e Alborán mi somigliano perché ci sono finiti dentro alcuni pezzi della mia storia personale; ma forse mi somigliano ancora di più per questa evidente rarefazione di personaggi. Insomma, tanto per esser chiari: a un certo punto mi sono accorto che a me piace avere a che fare con pochi personaggi alla volta non solo quando scrivo…
Il successo di Tre volte invano ha rappresentato uno stimolo o un fardello? A cosa sta lavorando adesso?
Intanto si è trattato di un piccolo successo, non tale da generare aspettative enormi. Però è stato un esordio positivo, e questo ha agito in me sia da stimolo sia da fattore ansiogeno. Ma non sono sicuro che tra le due cose ci sia una grande differenza. Un mio mito – nonché amico, nonché personaggio di Tre volte invano –, l’ex campione di basket Roberto Cordella mi ha raccontato che prima di ogni partita gli è sempre venuto il mal di pancia. Ed era un buon segno, perché quando scendeva in campo troppo tranquillo, senza la stretta dell’emozione nello stomaco, be’, quella era la volta che giocava male. In altre parole, bisognerebbe trasformare l’ansia da prestazione in energia positiva. Io ci ho provato.
L’ultima cosa che ho scritto è un monologo teatrale che andrà in scena il 15 aprile al Teatro Verdi di Brindisi. Si intitola Revolution, parla degli anni ’60 visti da una piccola città del Sud – Brindisi, appunto. Si racconta dei Beatles, della corsa allo spazio e dell’arrivo della fabbrica. Sarà interpretato e diretto da una bravissima attrice, Sara Bevilacqua, anche lei brindisina. Come brindisini sono i due musicisti che la accompagneranno sul palco cantando le canzoni dei Fab Four.
Alcune delle pagine più suggestive di Alborán sono ambientate nel Gargano, a Mattinata: qual è il suo legame con la Puglia? Conta di tornarci stabilmente, prima o poi?
È un legame stretto, ma per ora solo narrativo, per così dire. La Puglia è l’ambientazione della maggior parte delle cose che mi capita di scrivere: e questo, per adesso, è il mio modo di tornarci. Mattinata è una questione a parte. Ci sono stato una volta sola molti anni fa, in una giornata di vento fortissimo e di mare in burrasca. Mentre ero in spiaggia mi sono ricordato di una poesia di Orazio che avevo studiato all’università: la Ballata di Archita. Parla proprio di quella spiaggia, del vento e del mare in tempesta. È stata un’esperienza curiosa: la forza dello spettacolo che avevo davanti sommata alla forza delle parole di Orazio. In più, come racconto nel romanzo, mi piaceva l’idea che Orazio avesse potuto scrivere una ballata, come Bruce Springsteen, il quinto “personaggio” di Alborán.
Giovanni Turi