Intervista a Elisabetta Liguori
Pubblichiamo la seconda parte dell’intervista a Elisabetta Liguori, dopo la recensione pubblicata ieri su www.puglialibre.it:
Una dimensione fondante della Felicità del testimone è quella delle criticità famigliari; quanto lavorare presso il Tribunale dei Minori ha influenzato il suo sguardo?
Si dice che ogni autore scriva sempre e comunque del proprio demone, qualunque romanzo pubblichi. Bene, se è così, allora il mio demone è la famiglia. Lo è sempre stato, per esperienza, per attitudine e per lavoro. Famiglia sì, ma anche le altre relazioni umane in senso più ampio. La coppia, i legami di sangue, le dinamiche amicali. Questo mio ultimo romanzo tratta anche di questo, infatti. Altro non è che la storia di un incontro tra una donna e una bambina. Dunque tra due mondi. Quello di una famiglia disastrata, chiusa nella sua claustrofobica provincia, con quello di una ultra quarantenne alle prese con un lavoro difficile, una madre anziana, un compagno orso, una cagna inquieta e pochi altri amici fidati. Questo incontro è incardinato all’interno di una vicenda giudiziaria con tanto di omicidio, testimone oculare, indagini processuali, ombre e paesi in rivolta. Si tratta, peraltro, di una vicenda ispirata ad un caso autentico che insanguinò il Salento qualche anno fa. È dunque evidente: la prospettiva con la quale sono solita guardare certe dinamiche è quella appresa lavorando come cancelliere. La mia è una testa giuridica: mi servo degli schemi propri del mondo del diritto e il tribunale nel tempo si sta trasformando in un serbatoio infinito di storie alle quali attingere. Il Tribunale per i minorenni, in particolare, è la sede ideale. Qui si studiano e si tutelano i diritti fondamentali di ogni individuo, il nascere e l’evolvere dei primi desideri. Deve essere anche un po’ per questo che mi piace tanto metterli in relazione l’uno con l’altro, misurare la distanza tra un desiderio che nasce e la sua realizzazione successiva, attraverso le variazioni psichiche che tale percorso provoca nell’uomo. E inscenare, dove possibile, evoluzioni letterarie, ipotesi alternative, a partire da storie reali (e desideri reali).
Sempre con Manni ha partecipato alle antologie Mordi & fuggi e Sangu, insieme a numerosi scrittori meridionali e in particolare pugliesi; secondo lei cosa ha portato a una tale vitalità creativa nelle nostre contrade?
La colpa è dei muretti a secco. Ho sviluppato una mia teoria a riguardo. Quel cumulo ragionato di pietre di diversa dimensione che circoscrive le nostre province ben ci rappresenta come popolo. Un popolo ingegnoso, ma di pochi mezzi, che conosce i propri limiti ma sente fortissima la necessità di dar voce alla propria identità. Di reagire al silenzio, anche attraverso l’arte. Quei muretti sono la nostra fortuna e la nostra croce. Ipnotici e imperfetti, uniscono fatica e bellezza, fragilità e forza, vincoli e stimoli, desideri e tormento. Tra loro uguali, eppure diversi. Costruiti con grande perizia si reggono su antiche alchimie, senza nessun collante che non sia l’estro artigianale, tramandato nei secoli e rinnovato nella contemporaneità. Sembrano il frutto semplice di un gesto casuale, ma invece richiedono un lavoro paziente, quanto caparbio. Anche la creatività a Sud è così: espressione simultanea sia del bisogno di reazione che di quello della conservazione. Protesta e vessillo. È facile perdersi inseguendo muretti a secco: le pietre sfarinano, si frangono, si consumano, eppure resistono. A guardarli ti confondono, ti imprigionano, ti contagiano. Quelle pietre, ciascuna nella sua diversa forma, piccole o grandi, leggere o di peso, aguzze o arrotondate, si nutrono della loro stessa molteplicità. Come strumenti diversi, suonano la stessa musica, ciascuno a suo modo. Il rischio è però l’isolamento. Quei muri sono unici, infatti, sempre identificabili, bellissimi da guardare, ma a volte destinati a restare invalicabili, fin troppo lontani dal resto della geografia comune.
Giovanni Turi