Partire non è come morire: intervista a Giancarlo Liviano d’Arcangelo/1
Questo è il tempo in cui le promesse, sia quelle che riguardano la vita sia quelle che riguardano l’aldilà, non sono più credibili; è il tempo che non ha posto per le velleità e neppure per le pacate speranze. Sembra un tempo immobile, impenetrabile come la superficie delle cose. Eppure è proprio in tempi come questi che si avverte il bisogno di un puntello, di un argano che ci sollevi e ci permetta di tornare a concepire per Martina Franca e per l’Italia intera una visione, con quel distacco sereno e necessario nel valutare gli errori che in passato sono stati commessi, le dinamiche dalle quali tali errori erano scaturiti, le riflessioni utili per costruire un futuro credibile. Martina Franca, come tutta l’Italia, sta invecchiando, sta perdendo i propri figli che trovano altrove lo spazio adeguato per affermarsi, per coltivare i propri talenti, per offrire il proprio contributo nel settore di competenza. Questa settimana abbiamo raggiunto Giancarlo Liviano D’Arcangelo, autore tra l’altro del reportage narrativo Le ceneri di Mike, un giovane martinese che ha compiuto la scelta difficile della letteratura dell’impegno e dell’informazione politically correct. Gli abbiamo chiesto di raccontarci di sé, della sua esperienza e di esprimere la propria visione anche in rapporto a Martina Franca.
Hai lasciato Martina Franca nel 1995. Perché? Scelta volontaria o obbligata?
Ho lasciato Martina nel 1995, per motivi di studio. Devo ammettere che è come se avessi sempre saputo che sarei partito per andare all’università lontano. Era un’esperienza di vita che entrambi i miei genitori avevano fatto nella loro giovinezza e a noi figli ne hanno sempre parlato con trasporto e devozione. Per cui, in un certo senso, non ho dovuto fare altro che aspettare il mio turno. Più che della partenza da Martina, che io non vedo affatto come un momento tragico per un ragazzo, mi concentrerei sull’eventualità del ritorno. È assolutamente vero, infatti, che un’esperienza di qualche anno fuori dal proprio ambiente di riferimento, lontano dai gruppi che tendono a inquadrare in un ruolo preciso e immutabile, e anche dalla famiglia che funge spesso da ammortizzatore della propria diversità, aiuti a migliorare la conoscenza di sé stessi. Ecco perché i ritorni stabili sono difficili. In genere si torna cambiati, e come sempre quando si cambia, insofferenti a ricordare come si era prima del cambiamento. Poi indubbiamente esiste una componente che definirei “romanzesca”. Un ragazzo che parte da un paese come Martina, grande ma pur sempre periferico, compie il classico viaggio dell’eroe archetipico di ogni romanzo di formazione. Affronta peripezie e avventure, e apertosi all’ampiezza massima di un mondo che prima gli sembrava limitato, reagisce in due modi possibili. Sfidando quell’ampiezza, e provando a ritagliarsi lì il proprio spazio, o rinculando come il calcio di un fucile dopo lo sparo, cioè rifiutando il “nuovo” troppo grande e spaventevole, per rifugiarsi in ciò che conosce da sempre.
Quali sono i tuoi campi d’azione e d’impegno?
Il mio percorso, almeno nelle intenzioni, è quello dello scrittore che qualcuno definirebbe “impegnato”. Ma se dal dopoguerra in poi queste definizione annetteva tutti gli scrittori che in qualche modo applicavano alla realtà una chiave di lettura marxista, e quindi trovavano una certa collocazione in area del Partito Comunista e potevano integrarsi e avere un pubblico di riferimento, oggi credo che uno scrittore impegnato sia colui che non si limita a creare opere di pura evasione, di puro intrattenimento, ma colui che attraverso il proprio lavoro restituisca in modo problematico il grado di difficoltà a cui è giunta oggi la realtà. In pratica, nient’altro che quello che hanno fatto sempre gli scrittori da quando esiste la letteratura. Ai nostri giorni, invece, questa diviene una distinzione importantissima, perché se fino a qualche decennio fa esistevano pochissimi scrittori d’intrattenimento, oggi la proporzione è cambiata. Gli scrittori complessi, che hanno una visione e realmente qualcosa da dire sono pochissimi, e migliaia sono invece gli autori di romanzi in serie, puri prodotti commerciali come scatole di cereali, in cui la visione del mondo è sempre convenzionale. Quelli che Nabokov chiamava“gli ornatori del luogo comune”.
Da Roma tu torni periodicamente a Martina Franca: quali impressioni, sensazioni ne ricavi? Ti senti uno sradicato o mantieni i contatti con i tuoi coetanei che qui sono rimasti?
Con Martina ho mantenuto un legame molto forte, è stata la patria della mia infanzia e della mia adolescenza, un periodo chiave nella vita di uno scrittore, un uomo cioè che tende compulsivamente a mettere in competizione i propri ricordi con il proprio presente illudendosi di poterne ricavare un percorso per il futuro. A Martina, inoltre, ho gran parte della famiglia e moltissimi amici, e d’estate appena posso mi fiondo in campagna. Il clima della collina, la qualità della luce, la purezza cristallina del cielo e l’intensità di alcuni tramonti che si evolvono bruciando ogni tonalità di rosso, sono momenti di salvezza, abluzione e riconciliazione.
Quali sono a tuo avviso le”urgenze” necessarie per Martina Franca? Quale percezione hai dei giovani che a Martina Franca si muovono e agiscono?
Io credo che Martina, come grandissima parte del Sud Italia, abbia in primo luogo bisogno di una classe politica completamente rinnovata, nell’anima e nel cuore. Purtroppo, e non può che essere così, anche a Martina si registra una tendenza tipica ormai di tutta la nazione. L’amministrazione della “cosa pubblica” è il luogo che riunisce, come la carta moschicida per gli insetti, tutte le peggiori personalità di un territorio, le più avide, le più truffaldine e le più affamate di potere, per il semplice motivo che in quell’aria è più semplice avvicinarsi a grosse quantità di denaro senza che gli sprechi, i furti, o gli illeciti siano facilmente bloccati. Ci sono purtroppo pochissime eccezioni, che tuttavia si smorzano o perdono il proprio entusiasmo appena si avvicinano alla realtà della politica, perché si accorgono che il prezzo di non conformarsi a certe prassi, a certe gerarchie, è il rimanere esclusi. Anche per questo i giovani tendono ad andar via da Martina. La cattiva amministrazione, le poche occasioni di dedicarsi alla vita culturale vera, fungono da meritocrazia al contrario. E in qualche modo, le personalità più pure, le meno votate al compromesso, o quelle che non riescono ad abituarsi al vuoto, devono emigrare.
Maria Rosaria Chirulli
Domani, su www.puglialibre.it, la seconda parte di questa intervista a Giancarlo Liviano d’Arcangelo.