Partire non è come morire: intervista a Giancarlo Liviano d’Arcangelo/2
Allarghiamo l’orizzonte: l’Italia è un paese per giovani?
L’Italia è un paese dove si può essere solo soggiogati o soggiogatori. Pasolini diceva, negli anni 70, che già allora non c’erano altre divisioni di classe nella società italiana, né altre scelte possibili. Solo soggiogati o soggiogatori. Niente mi sembra più vero di così. Per ovvi motivi, è molto facile che la maggior parte dei soggiogatori siano vecchi, gente che occupa i luoghi strategici del potere e che naturalmente tende a spianare la strada a dei successori cooptati nella propria area familiare. Non so, quindi, se è solo un problema di generazioni, perché in genere i cooptati giovani sono già prontissimi a replicare le dinamiche apprese dai vecchi. Si diventa cinici da giovani, tutto qui. Il vero problema sono i criteri attraverso sui si formano le classi dirigenti. Cioè cooptazione pura, come dicevo, e censo. Tutti sanno che con questa legge elettorale i primi posti nelle liste dei partiti, cioè quelli che alle elezioni fanno scattare i seggi, si comprano. È una sorta di vero e proprio investimento, per cui è evidente che poi, giovane o vecchio, chi ha compiuto l’investimento deve rientrare, ed è qui che la politica diventa a tutti gli effetti non più gestione della collettività, ma un puro settore produttivo di reddito.
Cosa significa avere 35 anni? Come vivi tu questa fase della tua vita e che effetti ha su di essa la scrittura che tu pratichi da più di dieci anni?
A 35 anni in Italia uno scrittore è considerato ancora giovane. Questa è allo stesso tempo una stortura e una cosa vera. È una stortura perché i 35 anni sono l’età di massimo splendore per un essere umano, quella in cui se si ha avuto la fortuna di conservarsi ancora interiormente integri, e non corrotti, è possibile raggiungere la massima purezza nella dialettica tra se stessi e il mondo, e affrontare la propria, chiara, palese, evidente minutezza con grande coraggio e ironia, fungendo comunque da agente di novità e freschezza. Al tempo stesso la scrittura è forse uno dei pochi lavori in cui il bagaglio personale, se ben amministrato, può effettivamente rappresentare un vero valore aggiunto, sempre se il lavoro da scrittore è percepito come un percorso in cui la propria ricerca funge da filtro del mondo esterno, materiale che in qualche modo viene ingerito così com’è, grezzo e complesso, pieno di materia inorganica e organica al tempo stesso, e restituito in nuove forme. In questo senso a 35 anni ci sono ancora centinaia di esperienze da fare, anche intime, personali. Ciò che è davvero difficile fronteggiare, è sentire che un certo modo di essere scrittori non è più richiesto. A uno scrittore è richiesto, come ho accennato prima, di essere soprattutto un intrattenitore, un ruolo che un tempo era riservato ai giullari. È proprio il modo di produzione che impone questo. Il potere, che si appoggia al modo di produzione, è una specie di spirale che gira all’infinito su se stessa. Io, grosso gruppo multinazionale dell’industria o della finanza, occupo la “cosa pubblica” attraverso le collusioni con la politica e con il possesso dei mass media, e da questa posizione privilegiata costruisco la realtà a piacimento, offrendo il racconto quotidiano e simulato della democrazia e scolpendone i principi basici nell’immaginario collettivo; mentre le scelte che contano, quelle determinanti per il futuro di tutti, si compiono in stanze private, secondo interessi privati. L’Italia è un caso limite, un caso da laboratorio per un intellettuale che voglia fare da Cassandra. Solo che il ruolo per lui ritagliato dal meccanismo che ho illustrato è quello dell’intrattenitore. Racconta storie che non parlano della realtà così com’è, ma thriller fantasiosi o storie rassicuranti in cui l’amore alla fine, mette tutti d’accordo. E sarai premiato. Questo è quello che il meccanismo chiede agli intellettuali.
Rassegnato, arrabbiato, o indignato con un margine di speranza?
Il margine di speranza proviene dal fatto che poi, in ultima istanza, c’è sempre la scelta personale. Finché un uomo si sente responsabile delle proprie scelte e scende a compromessi solo con ciò che ritiene giusto è ancora un uomo. Ma su certi equilibri, sono abbastanza rassegnato, perché è evidente che l’Italia è un paese alla deriva, in cui sono ormai a rischio le coordinate minime della convivenza civile. Ciò che non fa precipitare la situazione e solo la bontà, e a volte la mancanza di cultura o l’ingenuità dei deboli. In un paese dove il 40% della ricchezza nazionale è in mano del 10% della popolazione, in un paese in cui i comuni si amministrano scientificamente raggiungendo un livello limite di dissesto finanziario in cui è impossibile spendere per il bene collettivo, e tutte le nuove immissioni di denaro sono destinate a commesse o consulenze “chirurgiche”, non ci può essere che un grado di violenza latente e sommessa davvero spaventosa. E questa situazione, lo ripeto, è in continuo peggioramento.
Ma dei trentenni c’è davvero da fidarsi? Sono senza macchia e senza peccato o irrimediabilmente contaminati dalla logica del mercato e della spietata competizione?
Basta analizzare il contesto in cui sono posizionati. È chiaro che un trentenne/quarantenne che occupa posizioni di potere in istituzioni conservative come consigli di amministrazione di società multinazionali, di aziende bancarie o partiti politici, non può essere un agente di cambiamento, perché la selezione, come ho accennato, è spietata. Un gruppo di potere funziona a lungo termine se le diverse personalità che ne fanno parte, pur con le debite differenze individuali, condividono un ventaglio di obiettivi e valori, e soprattutto un modus operandi comune. Le personalità “aliene” a un certo cinismo, ai giochi di potere, alle dinamiche di divisione del potere, o si autoescludono, se non sono ingenue, o vengono escluse ai primi passaggi della filiera. È alquanto improbabile che un giovane che vuole fare politica attiva con ideali positivi e poca voglia di compromessi possa fare strada. Può riuscire a diventare consigliere comunale una volta, poi resta isolato se non si conforma alle prassi dominanti. E chi resta isolato o ferma il proprio percorso e molla, o capisce che è meglio conformarsi alla prassi condivisa, a un certo alfabeto. Chi non è ancora diventato cinico, forse, più che i trentenni, sono gli adolescenti. Che tuttavia vertono, a parte pochi casi, in uno stato di abbandono e di vuoto culturale spaventoso. Al punto che c’è da chiedersi: ma la vera salvezza è nel conformarsi? È nel cedere al cinismo più aggressivo e pervasivo? O è nella piena coscienza di sé e del peso delle proprie scelte? Io opterei ancora per la seconda possibilità. Ma è difficile, molto difficile in questo contesto.
Maria Rosaria Chirulli