Intervista a Ettore Catalano su editoria e letteratura/2
[Pubblichiamo di seguito la seconda parte dell’intervista gentilmente concessaci dal prof. Ettore Catalano. La prima parte si può leggere qui]
Un dato oggettivo è rappresentato dall’iperproduzione delle pubblicazioni, tant’è che potremmo parlare di ipertrofia della scrittura. Quale lettura dà di questo fenomeno.
Purtroppo, riprendendo il discorso sopra accennato, molta produzione non meriterebbe neppure di giungere in casa editrice (ma questa è la valutazione di uno che si è formato nella Bari in cui pubblicare con Laterza, De Donato o Dedalo non era certo impresa da poco, dato anche lo spessore culturale di quelle redazioni che filtravano le domande e i dattiloscritti), e, in ogni caso, io penso che un’offerta ipertrofica danneggi le molte voci degne di ascolto. Devo anche dire che, purtroppo, non esiste più, a leggere i giornali, una critica militante onesta e libera, magari anche capace di qualche stroncatura a fin di bene. Tutto mi pare un po’ “congelato” e troppo “educato”, guidato forse da interessi non propriamente letterari. D’altra parte, un po’ di responsabilità è da attribuirsi alla latitanza di una certa critica accademica, anche se oggi le cose sono abbastanza differenti da quelle difficoltà che trovavo io quando mi occupavo di studi legati alla letteratura regionale.
Il suo occhio e il suo fiuto di critico coglie l’affermarsi in Puglia di una “voce” letteraria degna di nota?
Non mi piace fare nomi, ma c’è una pattuglia di giovani scrittori fra i trenta e i quaranta anni che promettono assai bene.
Recentemente Pietro Citati in un’intervista pubblicata dal «Corriere della Sera», ha parlato di “declino degli scrittori” e della scomparsa dei Classici dalle letture degli italiani. Insomma ha tracciato un profilo alquanto scadente del lettore. Queste affermazioni la trovano concorde?
Non sempre concordo con la prospettiva critica di Citati, ma sono d’accordo con lui su alcune sue recenti e pungenti osservazioni. È davvero impressionante, in presenza di tanta gente che scrive, il fenomeno che respinge i classici nello spazio del museo delle cere a vantaggio di certi prodotti scadenti e disinformati. Tuttavia, il problema è più generale, secondo me, ed è il risultato di un processo di complessivo decadimento della tradizione degli studi letterari e umanistici attraverso cui passano la superficialità e l’approssimazione di una quantità di testimoni soltanto di se stessi. Cosa degnissima, s’intende, ma non sufficiente a meritarsi un posto negli scaffali della letteratura, quella che ci emoziona e ci pone davanti interrogativi e spesso abissi di senso. D’altra parte, se oggi per “scrittori” passano calciatori, ministri, giornalisti e magari qualche ragazzotta di non specchiata virtù, io rimpiango molto i tempi in cui Pasolini, Sciascia, Moravia, Calvino e altri intellettuali scrivevano, anche sui giornali, sapendo di letteratura, ma essendo poi in grado di radicare nel sociale quelle suggestioni.
Tranne rare e virtuose eccezioni, vedo oggi affermarsi una nuova versione del cortigiano e del giullare, dell’intrattenitore-presentatore.
Cosa consiglierebbe ad un aspirante scrittore ed editore? Vale ancora la pena investire tempo, energia e denaro nella pratica della scrittura?
Il mio semplice consiglio è cercare sempre la qualità nel proprio lavoro e quello dell’editore è, specialmente oggi, un mestiere molto difficile. Per quanto riguarda lo scrittore, il problema è diverso: non è lo scrittore a scegliere di essere tale, ma è la scrittura a sceglierlo. E allora non c’è altro da fare che dedicarsi a questa “maledizione” con tutto il proprio potenziale di “cattiveria” conoscitiva. Concludo con un aforisma di Karl Kraus: «Ci sono certi scrittori che riescono ad esprimere già in venti pagine cose per cui talvolta mi ci vogliono addirittura due righe».
Maria Rosaria Chirulli