Pugliesi fuorisede/20: intervista ad Antonio Sanfrancesco

Antonio Sanfrancesco è salentino, di Taurisano, a pochi passi da Santa Maria di Leuca. È redattore del settimanale Famiglia Cristiana. Dal 2003 vive a Milano, dove si è laureato in Lettere moderne all’Università Cattolica e, dal 2007 al 2009, ha frequentato il XVI biennio della scuola di giornalismo “Carlo De Martino”. Ha scritto di cronaca nazionale per il quotidiano Libero. Per le sue inchieste sul gioco d’azzardo pubblicate nel 2012 ha vinto il Premio Cronista “Piero Passetti”  e il Premio “Guido Vergani”. Per il dossier “Il dramma delle bambine mai nate” è stato premiato dall’Unione cattolica stampa italiana con il Premio “Natale Ucsi 2012″. Su Linkiesta.it cura il blog Opportune et importune dove si occupa di temi religiosi e culturali.

Sei salentino e vieni da un paese, Taurisano, non molto lontano dal mare. Come ci si trova a vivere a Milano, dove la spiaggia più vicina dista almeno due ore?

Male. Milano è una città di una bellezza nascosta, accogliente, capace di fare sintesi tra le diverse anime che la abitano pur nelle contraddizioni di una società multietnica come quella di oggi. Però è troppo lontana dal mare. Chi non è nato in un posto di mare non può capire questa nostalgia profonda, che è quasi esistenziale, inconscia. Di fronte al mare del Salento, e a quello cangiante di Santa Maria di Leuca, che va dal verde al blu cobalto, la felicità è un’idea semplice. Per me il mare non è solo ricordo nostalgico ma, nella sua bellezza, nel suo incessante movimento, è segno di qualcos’altro: rinvia, accenna, suggerisce senza mai definire. I pescatori, spiegava Van Gogh, sanno che il mare è pericoloso e le tempeste terribili, ma non hanno mai considerato quei pericoli ragioni sufficienti per rimanere a terra. Ecco, il mare è la metafora più potente dell’avventura umana: non si vive se non rischiando e mollando ogni giorno gli ormeggi. Per questo, appena posso, soprattutto in estate, scappo da Milano per raggiungere la spiaggia più vicina.

Perché hai scelto questa città?

Sono arrivato nel 2003 per frequentare l’Università. Da allora Milano è diventata la mia città d’adozione, anche se non è stato certo un colpo di fulmine. Dopo la laurea, nel 2007, ho superato la selezione per entrare nell’Istituto per la formazione al giornalismo “Carlo De Martino” e poi ho iniziato a collaborare con Libero e Famiglia Cristiana. Alla fine, sono rimasto qui perché ho trovato il lavoro. Milano ha tanti difetti, senza dubbio, ma ha l’eleganza della sobrietà, della discrezione e della solidità. E questo mi piace molto.

Hai sempre voluto fare il giornalista? Cosa ti piace di più e cosa meno di questa professione?

La passione del giornalismo è nata da ragazzo, ai tempi della scuola media grazie anche alla mia insegnante di italiano che ci ha fatto partecipare a diversi concorsi giornalistici per le scuole. Da allora, mi sono sempre imposto di provarci. La velocità con cui questo mestiere sta cambiando e le sfide sempre nuove che pone obbligano a mettersi continuamente in gioco. Quello che mi piace di più è che non ci si annoia quasi mai e ogni giorno bisogna cimentarsi con nuovi argomenti e nuove storie. Quello che mi piace di meno è una certa tendenza al protagonismo: il giornalista resta un mediatore, un ponte, tra ciò che accade e i lettori. Nel cercare e dare le notizie, deve conservare questa umiltà di fondo.

Personalmente, ad esempio, mi occupo molto di bioetica e ho ben presente il rischio che scrivendone possa scivolare in una sorta di giudizio nei confronti delle singole persone che si trovano nel dramma di non poter avere un figlio o alle prese con un doloroso fine vita. È un rischio da correre ovviamente altrimenti non scriverei una riga. Però bisogna fare attenzione a entrare in punta di piedi perché si ha a che fare con la vita delle persone.

Nel 2012 hai vinto il Premio Cronista “Piero Passetti” e il Premio “Guido Vergani” per le tue inchieste sul gioco d’azzardo. Qual è stato il dettaglio più sconvolgente riguardo quest’inchiesta? 

Il ruolo attivo dello Stato che con una politica avventurista e spregiudicata, iniziata alla fine degli anni Novanta, ha arruolato più gente possibile al gioco d’azzardo patologico di massa con l’illusione di fare cassa. Oggi con 420 mila slot machine e 10 mila sale gioco, più tutti i giochi online a portata di mano, l’Italia è una gigantesca bisca a cielo aperto paragonabile, forse, alla sola Macao. Nel 2012, a fronte di una crisi pesantissima, gli italiani hanno speso in gioco d’azzardo 88 miliardi e mezzo di euro. Nelle casse dell’erario, però, sono entrati “solo” 8 miliardi. Quel che non si dice è che con l’azzardo lo Stato guadagna sempre di meno. Questi numeri evidenziano che è in atto uno stravolgimento di tutti i valori di riferimento perché se un Paese per ogni tipo di problema, compreso l’aiuto alle zone terremotate dell’Abruzzo, si affida all’azzardo e non alle proprie risorse culturali e intellettuali, è un Paese in declino.

Come mai ti sei avvicinato a questo argomento? 

Mi colpirono molto i dati sulla città di Pavia dove ci sono 520 slot machine, una ogni 136 abitanti e la spesa pro capite per gioco d’azzardo è la più alta d’Italia: nel 2013 è stata di 2.433 euro. Decisi di fare un’inchiesta più approfondita per Famiglia Cristiana andando a vedere e raccontare la città che gioca anche alle tre di notte e quella che resiste e cerca di curare queste persone. Lì ho capito che il gioco d’azzardo di massa non è una delle tante “nuove dipendenze” di oggi ma è un fenomeno sociale e antropologico, una perversione idolatrica di massa che sta cambiando nel profondo la società italiana. E il peggio purtroppo deve ancora venire.

Hai anche scritto un dossier sul Dramma delle bambine mai nate (premiato dall’Unione cattolica stampa italiana). Di cosa tratta e perché ne hai voluto parlare?

Sono quasi 100 milioni nel mondo le bambine uccise in grembo perché “colpevoli” di essere femmine. Si tratta di aborti sesso specifici che hanno provocato un vero e proprio terremoto demografico. Il primo a lanciare l’allarme nel 1990 fu Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia. Dal Sudest asiatico, dove è nato, il fenomeno è arrivato in Occidente attraverso i flussi migratori. I motivi sono diversi: vanno dalle politiche di pianificazione familiare imposte dallo Stato in Cina, ad esempio, a un mix di credenze e superstizioni che in alcune culture come l’India considerano le femmine un peso, una risorsa a perdere. In Italia il fenomeno è diffuso soprattutto nelle comunità cinese, indiana e albanese e, cosa ancora più inquietante, non riguarda solo donne ignoranti o emarginate ma anche quelle delle classi più elevate. Solo che non ci sono dati precisi, né si conoscono le modalità con cui avvengono questi aborti clandestini. Mi ha sempre sorpreso su questo tema il silenzio del movimento femminista. Il genericidio è un dramma che non può essere lasciato solo agli anti abortisti ma deve coinvolgere tutti coloro che hanno a cuore la dignità umana.

Credi che la tua fede influenzi il tuo modo di scrivere, oltre che la tua visione del mondo?

La visione del mondo certamente sì, il modo di scrivere no. Come tutti i giornalisti, prima di scrivere cerco di svolgere più verifiche possibili. Ovviamente, nel resoconto di un avvenimento è impossibile non far sentire al lettore l’opinione che mi sono fatto. Che ci si faccia un’opinione è inevitabile, negarlo è da ipocriti. L’importante è fornire a chi legge più elementi possibile per permettergli di farsi un’idea.

Azzurra Scattarella