“Il volo di Volodja” di Giuseppe Ottomano e Igor’ Timohin

Un campione fragile, forse l’ultimo di un’epoca nella sua disciplina, il salto in alto, in un impero prossimo al tramonto, l’Unione Sovietica. La storia di Vladimir “Volodja” Jaščenko contiene quelle caratteristiche che contribuiscono a renderla prossima al mito: e quando si tratta di atletica leggera, questa definizione non rischia mai di essere ridondante. La stella di Jaščenko ha attraversato rapidamente il cielo della «regina degli sport»: i suoi più grandi risultati sono stati raggiunti in appena due anni, tra il 1977 e il 1978, quando il campione faceva peraltro ancora parte della categoria juniores (era nato nel 1959 a Zaporož’e, una cittadina sul Dnepr nell’attuale Ucraina). I suoi record mondiali di quei due anni, però, erano assoluti: nessuno aveva mai saltato così in alto, né con il già vetusto stile ventrale, utilizzato ancora da parte della squadra sovietica, né con il fosbury, la tecnica dorsale già adottata in quegli anni e oggi dominante.

La storia di Jaščenko, malgrado il rapido declino, non è più confinata negli archivi dei primati dell’atletica leggera. Grazie a Giuseppe Ottomano, barese trapiantato a San Donato Milanese e appassionato di storia dello sport, e a Ivan’ Tihomin, medico che ha già dedicato in Ucraina un romanzo al campione di Zaporož’e, che l’hanno raccontata in Il volo di Volodja (Miraggi Edizioni, pp. 160, euro 15). Una pubblicazione arricchita dai ricordi di due tra le personalità di maggior rilievo dell’atletica leggera in Italia, che ne hanno curato rispettivamente la Prefazione e la Postfazione: Franco Bragagna, telecronista Rai, che nel 1978 era presente sugli spalti del Palasport di Milano in occasione dei campionati europei indoor in una delle gare più importanti della carriera dell’atleta sovietico («Il poster di quel volo sarebbe finito per anni sopra la mia testa»); e il professor Carlo Vittori, storico allenatore di Pietro Mennea, che sottolinea gli aspetti tecnici dei suoi salti («con un ulteriore miglioramento della tecnica, sarebbe potuto arrivare a saltare fino a 2,50 m») ma anche le peculiarità del suo aspetto («capelli lunghi, sorriso aperto, aria svagata […] Quasi quasi sembrava un occidentale travestito da russo»).

Di certo, era agli antipodi dell’atleta-modello sovietico durante la Guerra Fredda, di un Valerij Borzov per esempio. Anche per la disciplina: le lunghe dormite, anche in ritiro, gli calamitavano le invidie dei compagni di squadra, che nulla potevano però davanti al suo talento. Un talento di cui fece sfoggio, a soli 18 anni, nel campus universitario di Richmond, in Virginia, nel corso di una sfida tra le nazionali di Usa e Urss, quando saltò a 2,33 m, un centimetro sopra il precedente record mondiale assoluto di Dwight Stones. E poi proprio a Milano, l’anno dopo, dove saltò i 2,35 indoor conquistando il titolo di “elicottero”. E ancora a Tbilisi pochi mesi dopo, con i 2,34 all’aperto. Aveva appena 19 anni Jaščenko, ed era già un affermato campione, ricercato dai giornali di tutto il mondo (che andavano però a scontrarsi contro il muro opposto dal regime sovietico) e dalle lettere di innumerevoli spasimanti, attratte dalle sue vittorie non meno che dai suoi riccioli biondi e il volto da giovane divo.

Le Olimpiadi di Mosca nel 1980 erano a un passo e avrebbero con ogni probabilità sancito la sua ascesa nel pantheon dei saltatori di ogni tempo. Ma la fragilità del campione, che già sembrava colpire i suoi nervi portandolo a frequenti periodi di sconforto, finì per essere scatenata da una lesione ai legamenti del ginocchio sinistro, sottovalutata dal suo team, curata male e operata peggio. Il tracollo sulla pedana di salto di Kaunas, in Lituania, nell’agosto 1979, fu solo il primo di una serie di cadute (fisiche e mentali) che avrebbero colpito Jaščenko negli anni seguenti. Un declino ininterrotto, passato per l’abbandono da parte dei quadri del Partito, dei suoi concittadini, del suo fisico consumato dall’alcol. Ma Volodja sarà ricordato per sempre come campione. Un campione «giovane e bello», come è scritto sulla sua lapide, nella sua mai abbandonata Zaporož’e.

Stefano Savella