“Homo homini virus” di Ilaria Palomba
I contatti tra il mondo del giornalismo (ad eccezione di quello specializzato) e il mondo della body art non sono particolarmente consueti. Il primo fagocitato dalla cronaca, dalla bulimia di notizie; il secondo chiuso spesso in teatri off, in contesti metropolitani frequentati da un circolo ristretto di persone interessate. Ad Angelo, un giovane pugliese trapiantato a Roma, spetta un po’ per caso il difficile compito di avvicinare la carta stampata al racconto di performance estreme, ideate e messe in opera rigorosamente fuori dagli schemi. Il punto di congiunzione tra i due mondi sarà rappresentato da Iris, una ragazza che nelle sue esibizioni supera quanto già sperimentato dalla madre della body art, Marina Abramovic, ferendosi e mettendo a disposizione il proprio corpo in scena, per dimostrare che «il sacrificio spezza l’individualità umana, quel fottuto ego che tanto ci angustia. Il sacrificio dell’innocente non è un castigo: è illuminazione, coincide con la libidine più estrema, in ultimo con il Nirvana».
Molti personaggi si frappongono tra Angelo e Iris: tutti loro sono i protagonisti di Homo homini virus, il secondo romanzo di Ilaria Palomba (Meridiano Zero, pp. 308, euro 18). C’è Renato Paolini, docente nel corso di giornalismo frequentato da Angelo, da quest’ultimo visceralmente odiato eppure non così tanto da impedirgli di diventarne, in un primo momento, ghostwriter. C’è Kurt, l’amico gay di Iris che arriva a mettere in crisi, complici alcol e droghe, l’eterosessualità di Angelo. C’è Luisa, l’ex ragazza di Angelo, anche lei aspirante giornalista che dimostra di poter fare carriera utilizzando mezzi diversi dal proprio talento. C’è Tamara, un’attricetta con la quale Iris ha una relazione. E poi c’è Bowie, lo psichiatra da cui Angelo, dopo un colloquio di lavoro andato male, finisce in cura, e con il quale ripercorre a ritroso tutte le vicende precedenti, analizzandole anche alla luce della sua infanzia: «L’ombra dell’infanzia è un piccolo sorriso: mi allontana un istante dalle mie solite ossessioni».
Ogni capitolo del libro, sia quelli del racconto in prima persona di Angelo, sia gli estratti dal diario di Iris, hanno un brano musicale per soundtrack: quella che ne vien fuori è una compilation in stretta sintonia con il tono del romanzo (dai Pink Floyd ai Nirvana ad Apparat). Ma è soprattutto il mondo dell’arte contemporanea ad essere analizzato con più attenzione: l’autrice, del resto, ne parla con competenza, avendo pubblicato recentemente un saggio dal titolo Io sono un’opera d’arte. Viaggio nel mondo della performance art: «Performance art sta a indicare una forma d’arte effimera, fugace, in cui azione e fruizione coincidono, esperienza visiva ed esperienza performativa fondono pubblico e artista come unità di iniziati in un rito tribale, sacro e insieme profano, o forse sarebbe meglio dire pagano».
Angelo vi si accosta con disincanto e con tutte le sue contraddizioni: sfoga talvolta la sua rabbia contro la società che lo circonda, contro la politica, il mondo del giornalismo, l’egoismo e i conflitti, ma non esita a usare violenza contro Luisa, prima di essere lasciato. Sullo sfondo, resta una Roma abbarbicata al suo caos e ai suoi odori: «La città cresce cancerogena, sprofonda nei gesti automatici a suon di drum. Immersi nel traffico, io e tutte queste auto, siamo milioni di formiche in decomposizione. […] Apro il finestrino. C’è odore di aria condensata che sta per esplodere, di frittura, di sugo e pancetta, di piscio».
Stefano Savella