“Poeti arabi della diaspora” a cura di Francesco Medici

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La distruzione del patrimonio artistico e archeologico di Palmira, l’afflusso di profughi siriani verso l’Europa, il contributo di paesi confinanti come Libano e Giordania alla loro accoglienza e alla stabilizzazione della regione. E ancora, senza fine, il conflitto israelo-palestinese, tornato a intensificarsi negli ultimi giorni. In Medio Oriente si concentrano le questioni storico-politiche più rilevanti del nostro tempo. E per comprenderle a fondo è necessario allargare l’orizzonte delle proprie letture, cogliendo anche nella produzione letteraria e specificamente poetica le radici di una cultura ramificata e da sempre presente anche in territori diversi da quello di origine. Ne è un esempio evidente Poeti arabi della diaspora, antologia di versi e prose liriche di quattro poeti arabi emigrati negli Stati Uniti all’inizio del Novecento. Traduzione e cura del volume, pubblicato dalla Stilo Editrice nella collana Ciliegie (pp. 208, euro 14), sono di Francesco Medici: nato a Bari nel 1974, è uno dei maggiori studiosi italiani dell’opera del poeta e artista libanese Kahlil Gibran, di cui ha pubblicato per le Edizioni San Paolo la traduzione dei drammi Lazzaro e il suo amore e Il cieco, dei frammenti inediti La stanza del profeta e del suo capolavoro Il profeta. Nel 2014 ha tradotto e curato per i tipi di Mesogea Il libro di Khalid di Ameen Rihani, il primo romanzo in inglese pubblicato da uno scrittore arabo in America. Ha inoltre pubblicato, nel 2007, il saggio Luzi oltre Leopardi. Dalla forma alla conoscenza per ardore (Stilo Editrice).

Questa antologia di poesie raccoglie, insieme a testi inediti e rari di Gibran, una selezione di versi e prose liriche di Ameen Rihani, Elia Abu Madi e Mikhail Naimy, tra i maggiori esponenti della “letteratura araba dell’emigrazione”. Medici nella sua introduzione ricorda come il 28 aprile 1920, a casa di Kahlil Gibran a New York, una decina di scrittori siro-libanesi emigrati negli Stati Uniti abbia fondato un circolo noto come Associazione della Penna che raccoglie un gruppo di “ribelli”, determinati a rilanciare la lingua letteraria araba dopo secoli di stagnazione e sterilità. «Nello statuto – scrive Medici – si legge che l’associazione si prefiggeva di pubblicare le opere dei suoi stessi membri e quelle di altri scrittori arabi ritenuti meritevoli, allo stesso tempo incoraggiando la traduzione dei capolavori della letteratura mondiale. […] Si impegnava inoltre a incoraggiare i nuovi talenti, mettendo in palio premi per i migliori autori di poesia e di prosa». Il volume è inoltre arricchito da una presentazione di Kegham Jamil Boloyan (docente dell’Università del Salento, Lecce) e da una prefazione di Ameen Albert Rihani (Notre Dame University, Libano), nipote dello scrittore Ameen Rihani. Arricchiscono l’opera due poesie, contenute nella silloge, musicate e cantate dai Maalavia (disponibili attraverso QR code).

Nei testi raccolti in questa antologia si intrecciano una pluralità di temi, di stili, di contesti geografici. Ed è questo, indiscutibilmente, uno dei principali motivi di interesse. Lo si rileva fin nel primo verso antologizzato, di Ameen Rihani: «Passeggiavo un giorno sul ponte di Brooklyn, / sfidando il temporale. / Non c’era nessuno, tranne un ragazzo vestito di stracci». Ma per chi volesse affacciarsi sui territori della tradizione culturale araba, a poche pagine di distanza, tra i versi dello stesso autore, ecco distinguersi all’orizzonte Costantinopoli o «le strade soleggiate di Baalbek». In cosa consiste, del resto, la scrittura poetica, se non nell’attraversare distese di terra e di mare ascoltando i propri passi e il rumore delle onde direttamente dentro se stessi? Scrive ancora Rihani: «Posso varcare le porte di Liverpool, / riposare sotto il gelsomino a Samarcanda, / arrancare sulle rive del Nilo, / attardarmi sulla White Way a New York, comunque sono felice e a mio agio». Sono versi che acquistano un profilo ancora più netto di fronte al drammatico esodo in corso dalla Siria. «Morta è la mia gente e anche i miei cari. Le alture del mio Paese sono sommerse di lacrime e di sangue, e io sono qui, vivo come quando la mia gente e i miei cari gioivano tra le braccia della vita e le colline del mio Paese erano inondate dalla luce del sole»: Kahlil Gibran scriveva questa prosa poetica esattamente cento anni fa, quando la regione siro-libanese era sotto l’assedio delle truppe turche alleate della Germania; nel 1916, a New York, lo stesso celebre poeta libanese avrebbe attivamente offerto il proprio sostegno a un «comitato di soccorso per la Siria»: «Il mio popolo e il vostro popolo, siriani, è morto. Ma cosa possiamo fare per i sopravvissuti?».

Stefano Savella