Poesia qualepoesia/21: Raffaele Nigro. Il parlare sconvolto

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Rubrica a cura di Francesco Aprile

Raffaele Nigro è nato a Melfi il 9 novembre del 1947, vive a Bari, dove ha lavorato per la sede regionale RAI. Narratore, drammaturgo, poeta, nella sua opera setaccia le tradizioni popolari, la storia di un Sud che, svincolato da localismi, criticamente attinge a scavi di natura antropologica e filosofica; in poesia il suo lavoro riflette la stagione dell’impegno politico del Sessantotto, le liberazioni corporali che si esplicitano in liberazioni politiche della lingua, con lo scenario mediterraneo a filtrare le istanze del periodo e articolarsi come viatico, punto di partenza e accesso ai Sud del mondo. La stagione meridionalista dei Fiore e Bodini pulsa di vita nella parola poetica di Nigro che trova agio nei terreni sconvolti della civiltà contadina, la quale appare evocata e trattata alla stregua di un corpo sbeffeggiato e messo in crisi dal fallimento di un ideale politico e culturale, quello delle radici intese in termini di lotta e riscatto, maturato negli anni Cinquanta e spazzato via dall’edonismo rampante del consumismo. Nella constatazione di tale fallimento, e nella frattura che questo comporta, l’operazione poetica di Nigro contribuisce a mostrare, e rinfocolare, le fila di quella poesia che, come scrive Ettore Catalano, pone «il rifiuto preliminare dell’immobilità folclorica del Sud […] come necessità del dispiegarsi di un’analisi critica del portato conoscitivo della poesia degli anni Cinquanta e Sessanta capace di cogliere, soprattutto, le linee del configurarsi della frattura, piuttosto che la ricchezza dell’asse ereditario» (Catalano E., “Narrativa del Novecento in Puglia”, p. 4).

Nel 1981 pubblica, presso Nunzio Schena Editore (Fasano), la raccolta poetica “Giocodoca”. Si tratta della prima raccolta dell’autore e contribuisce a presentarne l’opera radicandola nella confluenza di punti di vista plurimi che sperimentano attraverso il linguaggio la condizione dell’autore, quella dei luoghi, quella del linguaggio stesso. Si tratta di confluenze, per l’appunto, di punti di ancoraggio i quali tentando la fuga, poetica, agiscono lo spazio della pagina sulla scorta di una moltitudine di suggestioni pesate, dunque ragionate, che formano la lingua autorale di Nigro adempiendola in quella che Leonardo Mancino, nell’introduzione “Il parlare consapevole”, traccia come triplice via, ovvero una lingua che «intende percorrere tre vie di comunicazione che si intrecciano in rapporti/conflitti» (Mancino L.). Di questo rapporto dialettico l’opera si compone. Si tratta di tre momenti cruciali attraverso i quali l’autore riflette, organizza e dispone sulla pagina le suggestioni e lo statuto coscienziale di un Sud e, in particolare, della sua terra d’origine, la Basilicata, mostrandone con lucidità le sofferenze e gli sconvolgimenti di una terra dove «mi confessasti che non avrei / più / ascoltato il tepore del sole / nei trapunti di rondini / a /f /f /o /g /a /t /e negli auschewitz delle centrali / nei tetri dakau delle fabbriche / sterilizzate dal benessere» (Nigro R., pp. 49-50). Quella di Nigro è una lingua al contempo sonora e mortificata, squartata, gettata sulla pagina la quale è attraversata in termini di spazio; qui l’autore recupera l’armentario delle ricerche poetiche dal primo Novecento in poi, e affrontando la spazialità della pagina restituisce un corpo altro alla parola che “affoga”, letteralmente, come le “rondini” sopracitate, le quali planano, o per meglio dire, precipitano nel vuoto di un abisso sterilizzato “dal benessere”. Dei tre rapporti conflittuali rilevati da Mancino è bene evidenziarne la copresenza, laddove il corpo del testo risulta attraversato da una tensione, uno sfaldamento al quale concorrono i tre aspetti. La simultaneità degli elementi si mostra come rilevazione storica del contesto. La lingua mortificata, già esperienza di un fallimento ideologico che si lascia dietro il ventennio Cinquanta/Sessanta, è emblema di un ventre squartato, quello della terra, del Sud, eppure è essa stessa carnefice, oltre che vittima; la parola come luogo privilegiato dell’azione dei poteri, nel gioco del controllo dell’informazione, intercetta la funzione del linguaggio come momento di coabitazione di elementi quali il parlato e la strutturazione massmediale del sociale che si producono in modificazioni strutturali dell’attore sociale. In questo senso la lingua intercetta l’uomo; la mortificazione della prima permette l’azione feroce sul corpo del secondo.

Il tono sonoro dell’opera è qualificato da Mancino come «un salmodiare», ed in effetti la notazione di elementi minimi ripetuti con costanza li qualifica strutturalmente nell’opera. Questi elementi, giocati nei termini di figure della ripetizione, accentrano l’attenzione, indicando e aprendo squarci nel tessuto poetico, rilevando il vissuto dell’autore, «una sera / le sere / queste sere; i pali / sui confini / la terra». Il puntualizzare delle ripetizioni conduce la lettura alla fissazione del contesto sconvolto, martoriato: «Una sera / le sere / queste sere lucane / gli occhi trepidi alla strada / l’orecchio agli urli del brigante disossato».

L’utilizzo del dialetto si colloca in quella provincia di senso che nella formulazione del linguista inglese Michael Halliday possiamo definire come Anti-Language. Il dialetto di Nigro non si italianizza, non procede a braccetto con nessuna traduzione, al contrario, nei momenti più selvaggi del testo, si contamina con l’inglese e le dinamiche della comunicazione pubblicitaria. È a questo punto che la lingua diviene a tutti gli effetti stravolta, rivoltata, e la sua valenza di protesta e rivalsa politica, ovvero quella fase dell’anti-language, è snaturata e sfigurata nell’accumulazione paradossale di idiomi che dimentica la stratificazione storica del dialetto, la quale offriva al testo la chiave di lettura politica e un background alla pelle autorale, in favore di una conflittualità che si esprime come nuova determinazione sociale. Ne deriva comunque una lingua che tenta e sfida entrambe le dinamiche messe in gioco: il dialetto da un lato e l’invadenza della nuova lingua internazionale, l’inglese come veicolo del massmediale, dall’altro. Il risultato è un gioco che nel piacere delle ripetizioni e nella pastosità conferita dal dialetto dischiude la poetica evidenziando le crepe tragiche del corpo che nella promiscuità destoricizzata appare sconfitto.

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