Poesia qualepoesia/22: Edoardo De Candia, relazioni liminali del segno
Rubrica a cura di Francesco Aprile
Edoardo De Candia (Lecce 1933 – 1992), pittore, figlio di Giuseppe e Margherita Querzola, a nove anni entra come apprendista presso la bottega di un cartapestaio, restandovi per sei anni, «a quindici anni mi sono licenziato da un cartapestaio dove lavoravo, ci sono stato sei anni, facevo bambole, statue, dopo ho cominciato a fare i primi quadri.» (De Candia E., in Verri A., Un cavaliere senza terra, 1988). Da segnalare, come rilevato da Egidio Marullo, l’importanza della permanenza di De Candia presso la bottega di cartapesta, dalla quale mutua, sempre nell’analisi di Marullo, l’aspetto sintetico di certa prassi scultorea che sembra richiamarsi alle grottesche romane. La sintesi dei volti e dei corpi decandiani, come le “chimere augustee”, si presenta ibrida, ma lungi dallo sconfinare nel mostruoso, attinge all’intercambiabilità dei segni espressi dal pittore, dal corpo al mondo, dal mondo al corpo. Se nelle grottesche le figure esili si confondono con elementi geometrici su fondi monocromi, nell’opera decandiana il rapporto e la sintesi si giocano fra corpo e mondo in una condizione densa di vulcanica esplosione comunicativa. De Candia può essere a pieno titolo inserito nei cosiddetti “Selvaggi salentini”. Se c’è un’attitudine selvaggia è da ricercarsi nel rapporto coi luoghi intesi in termini di spazialità, laddove l’armentario, artistico o letterario che sia, vive in termini di dissipazione ed esaurimento delle tracce nello spazio. L’assenza di progettualità si evince nelle continue riscritture e travasi di Claudia Ruggeri, nella letteratura corporea di Antonio Verri, nella poesia acida e sprezzante di Salvatore Toma, nel segno decandiano che buca la superficie del corpo mostrandone vivo il trauma, secondo una produzione ossessiva volta alla dissipazione, all’intertestualità come memoria istintuale del processo creativo e che assurge a schema, al prelievo, al prestito, al segno corrosivo, il tutto orientato verso un discorso che rompe la regolarità logica, avversa il limite, chiama la dissolvenza e si esprime nella perdita. Francesco Saverio Dòdaro, amico di Edoardo De Candia oltre che compagno di diverse esperienze artistiche, dedicando un testo all’amico scomparso ne traccia un profilo sintetico e veritiero, mostrandone il carattere dissipatorio del segno: «Io sono il mio corpo e il mare / non possono dividerci no no» (Dòdaro F. S., La mer ma mèr, in New Page, Lecce, 2012). Il mare/madre come correlativo di una dispersione, di una perdita nella spazialità. La frammentarietà del discorso decandiano come traccia primeva dell’abbandono dei corpi nello spazio.
La vicenda di Edoardo De Candia, segnata dal primo internamento in manicomio sul finire degli anni ’60 – che condurrà l’autore ai ripetuti e successivi e costanti internamenti – seppur da intendersi primariamente pittorica, si colloca, a partire dal periodo del primo internamento, sui versanti di una intercambiabilità dei segni e delle esperienze, tanto da manifestarsi in una serie di opere a carattere poetico-visuale. Lo spostamento dell’asse decandiano è rilevato da Antonio Leonardo Verri il quale notava: «le prime “forme” di vocali con la corona e dittonghi a tutto foglio: i suoi lettori, da questo momento in poi, prima di parlare delle sue opere devono aver chiara tutta la cultura novecentesca europea. Non solo pittorica» (Verri A. L., Edoardo, un cavaliere senza terra, 1988). La sottolineatura verriana intuiva lo spostamento dell’asse dell’opera decandiana dalla rappresentazione pittorica alla dimensione simbolica della lettera, delle parole che campeggiano a tutto foglio in dimensione di segno e colore, che in De Candia vanno a coincidere, e si manifestano secondo un approccio dinamico e performativo, desiderante e istintivo. De Candia apre al lettering, alla parola utilizzata in una sorta di concretismo desiderante, laddove è la matrice concreta del desiderio che si staglia sullo spazio compositivo dell’opera, e diventa segno pittorico forte di una valenza poetico-comunicativa che poco ha a che vedere con gli aspetti decorativi che la parola assume nelle opere di Jasper Johns, dove la parola o il simbolo numerico, come oggetti da rappresentare, mostrano come nella rappresentazione la preminenza spetti appunto alla modalità decorativa, agli aspetti formali della composizione, in completa antitesi col tracciato decandiano che proprio dall’espressionismo muove i passi verso la comunicazione poetica. E non è neppure il No di Mario Schifano del 1960 a mostrarsi come precedente o vicinanza possibile all’opera di De Candia, in quanto ancora, anche in Schifano – influenzato fra l’altro proprio da Johns – restano vive nel No, come in altre opere, le istanze della composizione e, d’altro canto, quelle più demistificatrici tipiche della pop art, senza il ribellismo vitale e fisico di un De Candia che nell’esperienza del manicomio apre e squarcia il desiderio gettandolo sullo spazio dell’opera in una ostinata richiesta di vita e calore. Amo, Ahi, Mai, Sola, Odio, Oro, e poi le M e le O sono solo alcune delle parole e delle lettere espresse da De Candia e che si modulano in forma di urlo, autentico, sentito, dilaniante.
Di questa sintesi fra espressionismo pittorico e comunicazione poetico-visiva restano una serie di opere le quali mostrano come l’irruenza del primitivismo dell’autore sia comunque non risolutiva e di superficie. L’istanza sociale, seppur rigettata, si mostra nella memoria del corpo autorale che ha ormai immagazzinato movimenti e gestualità precise, suggestioni poetiche e culturali, al punto da reiterarle in forma di schema. Tale schema è trascinato nelle vicissitudini personali dell’autore, il quale dall’esperienza manicomiale uscirà inevitabilmente segnato, operando in posizione antagonista al contesto sociale. I corpi, le figure rappresentate dall’autore nella sua pratica pittorica appaiono attraversate da segni che strizzano l’occhio alla grafia e sconfinano fra il corpo e lo spazio attorno. Questa forma della corporeità è tradotta dall’autore in una sorta di pulsione che incontrando i limiti del corpo cerca, nell’estensione del segno, di ricevere l’insieme degli accidenti, misurandosi con l’esterno e il divenire. Le forme vocaliche o consonantiche affidate al segno trovano ambiti di reciprocità con lo sfondo, lo spazio, tentando l’estensione a ciò che non appartiene alle stesse. Il dialogo autorale in De Candia cerca costantemente un altro da sé, del quale l’autore è privato a partire dall’esperienza manicomiale, ma è un altro assente e indefinito e che permette l’articolarsi di una promiscuità segnica che esalta l’intercambiabilità dei segni stessi: i corpi e i paesaggi sono per l’appunto corpi e paesaggi, ma al tempo stesso sono sopraffatti e segnati da momenti proto-calligrafici che contribuiscono a indebolire il confine fra un corpo e lo spazio attorno. Questa intercambiabilità dei segni sembra vivere non sulle coordinate della polisemia, bensì su quelle della disseminazione, la quale risulta opposta ad un qualche afflato polisemico. Il segno proto-semiotico che assurge a farsi calligrafico senza diventarlo, è già apportatore di un costrutto metaforico implicando lo spostamento e il trasporto comunicativo di un senso non più unitario e non più rivolto ad una trasmissione strumentale. Il fatto che corpi e paesaggi si mostrino attraversati da segni calligrafici è indice, ancora una volta, di come De Candia indirizzi la sua pratica alla ricerca di un destinatario ignoto e problematicizzato nella difficoltà stessa che i segni incontrano nel farsi calligrafia pronta a significazione. In questa fase, il rifiuto o l’impossibilità di un farsi completo della scrittura mostra ancora l’impossibilità di una integrità di senso che si ravvisa, invece, negli improvvisi urli delle lettere o parole evocate nella produzione che l’autore avvia dalla fine degli anni Sessanta. Scrive Francesco Saverio Dòdaro che le coperte del letto con le quali Edoardo De Candia, disteso, gioca, sono «un’inquadratura di grande interesse: fotogrammi winnicottiani, connotativi di profonda solitudine, di richiesta d’amore, di protezione maternale. E qui l’aggettivo va ampliato, va vocalizzato tra i lampioni spenti dell’agorà e i camici bianchi della follia. Tra le manette e l’elettroshock. Il gioco delle coperte. E lo sputo. Il rutto. Lo sperma. Tutta da sviluppare la com-prensione» (Dòdaro F. S., Lettera, in Nocera M., Edoar-Edoar, San Cesario, Il Raggio Verde, 2006, p. 7). La zona temporanea degli oggetti transizionali di Donald Winnicott, a ragione chiamata in causa da Dòdaro, si mostra in termini di “parole transizionali”. Le parole assumerebbero dunque valore attraverso il corpo. La ripetizione di una serie di termini “prediletti”, detti per l’appunto transizionali, consentirebbe l’affermazione degli stessi come feticci. È l’oggetto di culto, il luogo della relazione, richiamato in causa da Edoardo De Candia con le schiene delle sue donne, ma anche con la serie poetico-visiva delle lettere, delle parole: Amo, Ahi, Mai, Sola, Odio, Oro tutti termini che connotano il valore della relazione esprimendo constatazioni sulla propria vita. Le parole positive sono destinate ad una polarità. Questa è colta sia nei termini negativi che fanno da contraltare (Ahi, mai, sola, odio), sia nell’impossibilità del positivo stesso: Amo e Oro (ad indicare la preziosità delle relazioni) nascondono la negatività di un rapporto con l’altro che è martoriato e negativizzato dall’istituzione manicomiale. In questo senso le parole, reiterate, diventano transizionali e nel valore duale assurgono ad un ruolo totemico, di venerazione e reazioni forti e contrarie. Idealmente, lo stesso concetto è espresso da un testo poetico di Edoardo De Candia intitolato “La Notte”: «Queste case / squadrate / nel buio / che / contengono / la morte. / Gente / senza colore / e nessuno potrà mai / essere più. / Quante feste quanto amore / senza feste senza amore».
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