Poesia qualepoesia/33: Egidio Marullo: la scrittura defigurata

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Rubrica a cura di Francesco Aprile

Intraprendere un discorso attorno alla figura di Egidio Marullo vuol dire confrontarsi con una realtà artistica sfaccettata, caratterizzata da un polimorfismo dei linguaggi che porta l’artista a dialogare con elementi musicali, pittorici, letterari, fotografici. Di difficile catalogazione, quella di Marullo è una figura artistica appartata, nella misura in cui conosce il senso dell’attesa, della sosta e la pratica come ascolto alla ricerca di stimoli e spunti necessari per nutrire la creazione. Nato in provincia di Lecce nel 1974, compie studi artistici. Attualmente è docente di Arte e Immagine, Disegno e Storia dell’Arte. Parallelamente sviluppa la sua attività di musicista. Dal 1993 al 2003 è batterista degli Aria Palea, gruppo di sperimentazione prog-folk con cui registra nel 1996 “Zoicekardia” e nel 1998 “Danze d’ansie”, entrambi per l’etichetta veneta Lizard. Dal 2000 è parte dei “Kaus Meridionalis”, band che guarda ai suoni del Sud del mondo secondo un percorso di ricerca fra denuncia sociale e attenta rilevazione del contesto. Nel 2005 e nel 2008, come assistente tecnico e regia audio-video, affianca i maestri concertatori Ambrogio Sparagna e Mauro Pagani de La Notte della Taranta, mentre nel 2006 produce e suona “Tis Klei” e nel 2011 “Funzione preparatrice di un regno”, entrambi di Ninfa Giannuzzi. Dal punto di vista delle arti visive, dal 1996 è artwork per l’etichetta Lizard, nel 2011 illustra la raccolta di favole “Come fece come non fece” di Luigi Chiriatti, edita da Kurumuny, si occupa di animazione e regia per lo spettacolo “Canti Cunti e Migrazioni” di Antonio Castrignanò (2008), ha collaborato alla rivista Diversalità Poetiche curata da Francesco Pasca, ha eseguito negli anni diversi live painting, fra questi, nel 2014, si segnala quello realizzato in occasione del reading/presentazione del romanzo “L’armata dei sonnambuli” del collettivo Wu Ming. Dal 2015, lavorando sulla figura di Edoardo De Candia, avvia un percorso di ricerca attorno ai segni del Mediterraneo. È parte del comitato redazionale della rivista Utsanga.it (dal 2016), collabora con il collettivo desuonatori e con diverse realtà editoriali e performative, dal 2017 è parte del movimento letterario New Page fondato nel 2009 da Francesco S. Dòdaro.

Riscontrare un dato polimorfo nella pratica artistica di Egidio Marullo non preclude, tuttavia, il manifestarsi di una serie di linee guida capaci di tenere le fila del discorso, legando le diverse pratiche con una serie di caratteristiche comuni che connotano l’estrazione del gesto. L’elemento musicale del ritmo è una di quelle caratteristiche che attraversa la sua produzione. Il ritmo che dalla batteria si traduce nella gestualità pittorica è cadenza costante nelle figure e nei corpi che abitano la dimensione visiva. Come una serie di pilastri, questa musicalità denota il ritmo dell’opera, cadenzandola sulla tela. Le figure, in un contesto sociale solipsistico, manifestano una pretesa di riappropriazione degli spazi dei corpi, restituiti ad una valenza magica che traduce il reale in impronta immaginifica. Ciò che dopo lo sguardo resta, appare come trasfigurazione di un segreto ancestrale colto nei corpi e mai violato, mai assunto a consapevolezza dalla categorizzazione del conscio. Resta in forma di traccia. Sul piano più strettamente letterario, si mostra una sensibilità poetica radicata nel suono, nelle ripetizioni che alimentano l’opera. Spazialità e senso del ritmo contribuiscono a legare assieme musica, gesto pittorico e autorale. Fra il 1997 e il 1999 realizza una serie di lavori denominati “Senza vela”, poi esposti dal 12 al 22 dicembre 1999 a Lecce presso “Prosarte”. In questo ciclo di opere la scrittura diventa elemento accessorio, si mostra in termini di processo, propulsione fisica, gestuale. Della scrittura non restano che il concetto e la materia di un vissuto privato, personale e quotidiano che si sedimenta sullo spazio dell’opera, la quale è quasi sempre posta al centro ed emerge dall’evidenza del bianco della pagina. Anche laddove l’incedere gestuale consentirebbe l’ordinaria lettura del testo, la grafia tende invece a darsi in forma accessoria, è una materia collaterale al flusso del gesto e dei segni rapidi e veloci, pastosi, che dominano il centro dell’opera. Ciò che restituiscono è quel senso di indeterminatezza dell’esistere. “Senza vela” è una struttura abitativa per la condizione gestuale della parola. Una struttura spaziale, dove il gesto è sorretto dal ritmo degli elementi che dialogano con le tracce del mondo. Il corpo come luogo della creazione appare come abitazione, traccia e flusso pulsionale di una scrittura concettuale che è materia, ritmo, gesto, segno.

Lavorando dal 2015 ad una ricerca riguardante l’opera del pittore Edoardo De Candia, Marullo intraprende un autonomo percorso di scavo volto ad indagare i segni del Mediterraneo. Ciò che ottiene è l’immergersi in una realtà lunga millenni che rielabora in un misto di pittura astratta e segnica, con indirizzo verbo-visivo, a tratti asemantico, dettato dal grafismo via via sempre più “sgarbato” che dalla serie “Senza vela” a questo nuovo percorso intitolato “Canti alla macchia” si attesta sui piani di una maggiore liberazione gestuale, nonché di una ibridazione rafforzata dal dato storico dell’indagine effettuata. Scrive Giancarlo Pavanello, presentando la mostra a tre voci “Modulazioni granulari” (2017 – Francesco Aprile, Cristiano Caggiula, Egidio Marullo) che nell’opera di Marullo «Il punto di partenza appartiene all’ambito delle arti visive più che a quello della letteratura. Ma anche in questo caso, e forse ancora più marcata, è evidente la frattura con l’operato degli artisti accaniti sulle avanguardie del Novecento fino a un vero e proprio vicolo cieco. […] La presa di posizione potrebbe essere la “pittura-pittura”, la “pittura analitica”. La frantumazione della figurazione con stesure limpide e fresche ad acquarello [ma non solo] che alludono a qualcosa di esterno al supporto, alla realtà, ma per restare in ambito astratto [a volte più e a volte meno]. Una colorazione a macchia vicina a una scrittura asemantica, che infatti, spesso vi si associa come un proliferare di grafismi. Un’astrazione allusiva per sottolineare una figurazione mancante o appena abbozzata».

I “Canti alla macchia” sono, dunque, opere che rileggono il Mediterraneo interno, il suo paesaggio nascosto e residuale, lavorando sull’intercambiabilità dei segni; il paesaggio diventa scrittura, la scrittura si fa paesaggio. I segni rapidi sfumano nel colore e si aprono in improvvisi agglomerati materici. Il risvolto delle scritture mostra il controcanto della comunicazione umana odierna: un corpo fisico creatore di gesti, segni, poliglotte incisioni di linguaggi che lotta nelle maglie del distacco dal corpo sempre più accentuate dall’invasività tecnica. Il paesaggio residuale del Mediterraneo, con le sue chiazze di colore, diventa metafora di resistenza. Si tratta, dunque, di un «percorso che può essere assorbito per intero o scomposto nella perizia violenta dei particolari. Esiste un modulo, direi, un orizzonte di aspettative, mental set (Gombrich), che rende possibile il passaggio dell’opera sul piano di un universale immaginifico che si allontana dalla riproposizione di un paesaggio. È in questo mental set che ritroviamo la dimensione concettuale che astrae il reale e anzi lo devia a partire da quell’alfabeto di codici pittorici e linguistici dei quali il pittore si è nutrito lungo il suo percorso. L’ambivalenza dei codici che l’autore porta sulla scena trascina il piano dell’azione pittorica sulle tracce di una intercambiabilità linguistica significante. […] Il segno calligrafico, la scrittura che spesso attraversa le sue opere, diventa elemento naturale del paesaggio. Al contrario quei segni rapidi e forti di grafite o carboncino che recano in sé una memoria di paesaggio hanno la forza di aprirsi al momento di una comunicazione autorale, quasi alfabetica, che si perde nel sedimento primordiale di un qualsiasi linguaggio» (Aprile, utsanga.it, settembre 2015). In questo senso, l’intercambiabilità dei segni, degli universi linguistici, fa in modo che l’opera si formi nel movimento di un tutto indifferenziato che appartiene alla percezione del corpo. Il paesaggio, fattosi scrittura, mostra come la defigurazione della scrittura stessa che si perde fino a farsi filo d’erba funzioni nei termini di un modulo comunicativo. Il poeta Julien Blaine, presentando la mostra “Modulazioni granulari”, scrive dei “Canti alla macchia” che la scrittura «è ridotta ad un filo d’erba […] è minima, è al suo stadio iniziale […] la scrittura inizia o la pittura finisce» (Julien Blaine, 2017). È questo il senso dell’operazione? Ciò che restituisce è l’interrogativo di un segno che sembra darsi in parola quando il paesaggio finisce, ma è defigurato nel colore che esplode.

Poesia qualepoesia/01: Apertura per salti e altro dire

Poesia qualepoesia/02: Premessa storico-contestuale

Poesia qualepoesia/03: Unità di politica, arte e scrittura. La poesia visiva a Taranto

Poesia qualepoesia/04: Michele Perfetti

Poesia qualepoesia/05: Anni ’60. Ricerche verbo-visive in Puglia

Poesia qualepoesia/06: Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce

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Poesia qualepoesia/13: Francesco Pasca. La singlossia nel racconto

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Poesia qualepoesia/23: Lo svuotamento della scrittura. L’asemic writing in Puglia

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