Poesia qualepoesia/42: Rossana Bucci, il taglio della superficie
Rubrica a cura di Francesco Aprile
L’esperienza in poesia di Rossana Bucci risulta inscindibile da una messa in opera di materiali da considerarsi nei termini di una espansione autorale nel mondo. Il percorso dell’autrice è quello di una dilatazione delle pratiche, degli intenti i quali vanno a comporre le trame di un’azione che nella fluidità del distendersi vede intaccata la superficie dell’opera alla quale segue una risposta che la stessa Bucci definisce “emotiva”. Rossana Bucci opera nei campi della poesia, lineare e visiva, nonché della performance, pratiche, queste, che la vedono spesso in azione in coppia con Oronzo Liuzzi. Proprio con quest’ultimo cura le attività dell’Associazione culturale Eureka, a Corato, e le rispettive pubblicazioni della collana CentodAutore. È presente in antologie poetiche e numerosi progetti espositivi, in Italia e all’estero, nonché nella collezione e corrispettivo volume “Imago Mundi – Visual Poetry in Europe”, curato da Sarenco per la Fondazione Benetton. Ha pubblicato, in poesia, “Petali di me in volo” (Corato, Secop Art, 2014) e “DNA” (scritto a quattro mani con Oronzo Liuzzi, terza uscita della collana CentodAutore delle Edizioni Eureka, 2015).
L’intreccio dei materiali, volti a increspare la superficie, a frantumarla riducendo la fluidità del gesto a quei pochi tratti di grafia che emergono, altro non è che il confronto continuo dell’autrice con il mondo e con alcune delle sue problematiche più urgenti, le quali possono andare dalla sovrapproduzione all’inquinamento, dalla spazzatura al riciclo, ma hanno, appunto, a che fare con tutta una serie di materiali in eccesso e la morte della funzione strumentale di quegli oggetti, prodotti in esubero, che assolto il loro utilizzo intraprendono o la via del divenire spazzatura, rifiuto, eccesso non smaltibile che arreca danni, problemi, o la via del riciclo, del riutilizzo arrivando a nuova vita. In questo senso è la stessa autrice a spiegare, in nota biografica, l’indirizzo del proprio lavoro: «La sua è una ricerca in evoluzione mediante l’uso di materiali opposti ed inusuali che vanno dal recupero memoriale alla stratificazione oggettuale, dove la lacerazione tecnica del suo fare arte è sempre accompagnata da una compensazione emotiva, romantica e introspettiva. Pertanto […] procede quasi sempre dal grado zero fino alla saturazione dello spazio, al fine di creare un corpo unico di “incastro” della sua arte, con le tematiche che vuole rappresentare».
L’indagine sui materiali condotta da Rossana Bucci vede ambiti di reciprocità con il percorso del già citato Liuzzi e i due, in effetti, operano spesso assieme, dalla realizzazione di lavori verbo-visivi alle performances, dalla scrittura poetica alle installazioni, condividendo i motivi della ricerca, sviluppando un percorso che nella condivisione estetica di materiali, quali possono essere le superfici metallizzate tanto utilizzate da entrambi, vede manifestarsi una singolarità etica-estetica la quale può essere meglio delineata a partire dalle aree di reciprocità del lavoro di entrambi al fine di evidenziarne differenze, autonomie. La parola poetica di Rossana Bucci in “Petali di me in volo” attiene al dolore del quotidiano, ma allo stesso tempo ritaglia lo spazio di una luce che induce a pensare e lavorare, a produrre, a creare, è la dimensione prediletta dall’autrice, dunque, quella che già si mostra nella raccolta poetica del 2014, una dimensione che nelle falle del quotidiano non arretra dalla condizione del poetico, ma soprattutto rende manifesta quella tensione ontologica che caratterizza il suo percorso, sia in poesia lineare che visiva, laddove lo scandaglio del quotidiano vede l’approssimarsi, dietro falle e increspature, della “poesia” come elemento primo, eletto appunto a condizione ontologica. L’iterazione della parola “poesia”, registro al quale ricorrono entrambi nel lavoro verbo-visivo, mutuata dalla tradizione della poesia visiva, mostra come la riduzione del discorso attraverso il ricorso a elementi minimi apra l’universo di significazione delle superfici metallizzate e degli elementi che si stagliano sulle opere. Poesia appare correlativo di “luce” e si oppone all’ombra, la quale viene cancellata da una “X”, senza subire una vera e definitiva eliminazione, mostrando come l’opposizione sia apparente e, al contrario, la compresenza dei due poli costituisca la dinamica fondamentale del lavoro di Rossana Bucci. Le superfici delle sue opere sono, infatti, un continuo alternarsi di materiali alla vista quasi dismessi, ma che rivelano la compresenza di punti di luce, di bianco, che spezzano la superficie-ombra, già di suo frastagliata, increspata dalla irregolarità dei materiali chiamati in causa. Nel testo poetico “Grazie mondo” che apre la raccolta “DNA”, Bucci e Liuzzi siglano, al terzo verso, l’espressione “Io, la verità, parlo”, ripresa dagli “Scritti” di Lacan, “La cosa freudiana” nello specifico, ovvero del “c’est moi, la vérité, qui parle” e proprio in quest’ottica si situano i lavori di entrambi sul piano verbo-visivo; ovvero se “poesia” è il termine primo, e ultimo, il carattere di dismissione delle superfici metalliche, la perdita del loro essere sfavillanti nel caso del percorso di Rossana Bucci, dove il nero sovrasta e mette sotto scacco il luccichio, sanciscono la distanza fra un altro, inteso come lettore-fruitore, e la cosa-opera-poesia che quasi si stacca dalla totalità increspata e frammentaria e parla. Questa articolazione fluida della parola “poesia” così come del termine “luce”, resa possibile dal gesto e dalla sua espansione nel mondo, dunque il farsi opera – procedere, diceva l’autrice, «quasi sempre dal grado zero fino alla saturazione dello spazio» – è esemplificativa della pulsione di vita, di questa tensione che implica una fuoriuscita, una dispersione o estensione nel mondo, quella “saturazione dello spazio” dalle cui increspature viene fuori l’inatteso taglio di luce che nell’opera di Rossana Bucci si fa “poesia”.
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