Poesia qualepoesia/44: La radice informale nella verbovisualità di Vandagrazia De Giorgi
Rubrica a cura di Francesco Aprile
All’interno dello scenario pugliese, di area intermediale, è possibile riscontrare nel tempo l’avvicendarsi di percorsi collaterali negli indirizzi specifici degli autori, i quali muovono da un centro di attività stratificate verso litorali periferici e viceversa.
Vandagrazia De Giorgi vive a Lecce, città dove è nata, e opera all’interno di una rete di relazioni fra linguaggi e vedute poetiche volte alla costruzione di un discorso che è, prima di tutto, incentrato sull’impegno sociale mirando ad una “solidarietà nuova”, afferma in nota biografica, la quale, muovendo dall’analisi e dal lavoro incentrato sul ruolo della donna, allarga la prospettiva procedendo verso gli itinerari della multiculturalità. Pittrice, di area informale e segnica, ha vissuto il passaggio dalla tela al digitale e nel corso degli anni Ottanta inizia il suo percorso in poesia collaborando con “Poesis. Foglio di Cultura, Letteratura e Arte” diretto da Angelo Lippo e con il Laboratorio di Poesia coordinato da Arrigo Colombo presso l’Università di Lecce, raccogliendo gli stimoli poetici che aveva iniziato a seminare già dagli anni Settanta in seguito all’interessamento verso gli stilemi neoavanguardisti, la critica alla reificazione dell’attore sociale e all’uomo-massa, innestando su queste direttrici il proprio discorso. Sono anni, questi, in cui partecipa a mostre e rassegne di arte contemporanea, all’interno di un ampiamento della tensione poetica e artistica, come ad esempio “Artigianarte” a Lecce, e collabora con gli artisti dell’Arca di Taranto. Il lavoro in pittura, sebbene incentrato sulle stratificazioni materiche e segniche del colore, già rivela innesti calligrafici o protocalligrafici dove la traccia di una parola o lettera già data si affianca a segni che rimandano ad una costruzione in progress della lingua, la quale sembra emergere dall’impasto di colori che si sgretolano sulla superficie dell’opera. Similmente all’area pittorica, quella poetica e poeticavisuale vede il passaggio dall’analogico al digitale. Se nella prima fase, quella analogica, la dimensione visiva della parola poetica era affidata alla gestualità, al valore della mano che traccia segni, curve, forme, servendosi del disegno e sfociando in una sorta di calligramma descrittivo, fluido, dove non è la parola a darsi in forma visuale, ma il segno che descrivendo la parola finisce per inglobarla al suo interno, assorbendola e mutandola in disegno, nella fase successiva, digitale, la parola costituisce già immagine a sé ed è sfigurata nella distorsione del colore che detta un “addio alla parola” risolta, appunto, nel colore. In questo caso il lavoro dell’autrice sulla parola poetica è indirizzato alla radice “informale” della sua pratica pittorica al punto che è l’autrice stessa ad affermare: «Trovo la mia giustificazione storica nell’informale, che si è liberato dalle scorie del “soggetto” per vivere in piena autonomia di intuizione creativa». La dimensione verbovisiva vede lo stratificarsi, dunque, di una poetica dell’indeterminato, dove la parola vive nell’amalgama privilegiato del colore e da questo sembra emergere in maniera sorgiva, ancora una volta in un mix fra parola e segno, o disegno, dove la parola stessa instaura un dialogo con la forma segnante, muovendosi sullo stesso piano. In questo senso, scrive l’autrice, «la parola si risveglia sullo sfondo di una immagine». Il rapporto che si instaura fra parola e colore, e ancora fra parola e, più marcatamente, fondo monocromo mira a mettere in evidenza il detto della parola e il non detto dell’amalgama e la deformazione della parola diviene il darsi visivo della stessa.
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