Poesia qualepoesia/45: Profili: Augieri, Carpentieri, Marrocco

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Rubrica a cura di Francesco Aprile

Fra indagini antropologiche e recupero di una memoria popolare in relazione ai linguaggi musicali e/o dell’oralità in senso più ampio, la cultura nel Salento trovava nuovi snodi; a questa declinazione della memoria non restavano indifferenti letteratura e arte. Se il poverismo aveva contribuito a spostare l’attenzione su problematiche di sostenibilità ambientale, nonché verso i litorali di una materialità diversa, rinnovata, lo scavo antropologico in area musicale traghettava il sapore politico di una coscienza ritrovata. Lo sviluppo dei linguaggi letterari trovava di certo nuova linfa, a partire dagli anni Settanta, a cavallo di relazioni liminali dei segni, dei simboli, delle pratiche capaci di intrecciarsi e rileggere, alle volte, il popolare, in un senso etnografico, alla luce di un suo rinnovamento; allo stesso tempo, autori provenienti da campi differenti operavano in un crollo sistematico delle barriere, degli argini, accorrendo ad ingrossare le fila della verbovisualità o di quella letteratura di stampo neoavanguardistico improntata al gioco, alla mescidazione, alla costruzione di ingranaggi letterari capaci di trovare nella manipolazione della parola la materia prima da cui partire.

Nelle scritture della seconda metà degli anni Settanta pubblicate da Carlo Alberto Augieri, oggi docente di Critica letteraria e Ermeneutica del testo presso l’Università del Salento, sulle pagine della rivista “Ghen” del Movimento Arte Genetica, fondato nel 1976 da Francesco S. Dòdaro, è possibile rintracciare quanto appena detto. “Ghen” era una rivista modulare, annuale, ideata, progettata e diretta da Francesco Saverio Dòdaro come organo del movimento di Arte Genetica, della quale uscirono tre numeri (1977, 1978, 1979). A partire dal primo numero di “Ghen” Augieri, che aveva con titubanza aderito al movimento nel 1976 firmando i suoi interventi con lo pseudonimo di Italo Sider, avviava un discorso poetico e teorico che, nell’intreccio di elementi folklorici con altri provenienti dai campi della comunicazione, tendeva a darsi nella forma di una poesia critica e storica, seppure nutrita in misura preponderante dal gioco dell’invenzione linguistica, dove il neologismo si dava nella postura di una commistione fra dialetto e inglese che pure aveva il compito, nell’ottica del discorso avviato dall’autore, di sondare i fondali della storia come critica e risimbolizzazione culturale. Sul primo numero della rivista comparivano gli interventi “Identità de-sider(i)ale” e “Palom/bara a Otranto”. Con il primo intervento, un testo a carattere teorico, una dichiarazione d’intenti, l’autore procedeva con il dipanare le coordinate della sua poetica prendendo le distanze dal realismo come dal popolare inteso come connotativo di “pubblico vasto e grosso”, accettando il compromesso di porsi nell’accettazione degli stilemi propri delle innovazioni tecnologiche e delle contaminazioni linguistiche. “Palom/bara a Otranto” spostava la produzione di Augieri sul piano poetico, il quale appariva mosso da coordinate tipiche di un postmoderno incline al gioco, al trasporto sonoro di una lingua che nella mescidazione fra dialetto e inglese cercava una diversa forma di oralità, evidenziando il guasto di una cultura locale che veniva dimenticata e soppiantata da una diversa, non appartenente alla memoria di chi abitava i luoghi del Salento. Attingendo a piene mani dagli itinerari del modernismo e del postmodernismo, l’autore ne combinava gli elementi e laddove il postmoderno con l’inclinazione al neologismo, all’informazione, al messaggio, alla comunicazione appariva preponderante, la dimensione critica nei confronti dell’avvento della contemporaneità tecnologica apriva a istanze moderniste, le quali trovavano nella confluenza di elementi di area filosofica e psicoanalitica motivi centrali della messa in opera di una azione critica; proprio questa azione aveva nel “simbolo” come grimaldello del linguaggio poetico dell’autore la chiave del percorso. Sulle pagine del secondo numero di “Ghen” (1978) l’intervento teorico “Etno-poesia come proposta” contribuiva a spiegare ulteriormente il tracciato. L’autore, che dal numero del 1978 metteva da parte lo pseudonimo “Italo Sider” (nel quale è possibile ravvisare un richiamo a quella componente critica contro la contemporaneità, un discorso allacciabile alle polemiche rivolte in Puglia verso l’Italsider di Taranto) dichiarava: «La poesia, ecco perché parlo di antropo-poesia, può penetrare, comunicare, destrutturare, appunto perché si fonda sul simbolico, i termini della follia-etnia; specialmente la poesia: più che la filosofia o il discorso scientifico. […] Il simbolo non si cura, si penetra per ri-simbolizzarlo, ri-acculturalizzarlo: ri-etnizzare la follia tramite un’operazione culturale penetrante vuol dire ri-associare la dissociazione; riappropriarsi del desiderio che essa esprime, capire i bisogni, prima che vengano incanalati, omologati. Riprendiamoci i nostri simboli, risorgiamo ai nostri desideri […] fare poesia vuol dire “desiderare”». In questo senso la parola poetica in Augieri, forte del grado di simbolizzazione perseguito, procede imbastendo un discorso desiderante, in questo caso in linea con i presupposti teorici del movimento articolati da Dòdaro (fra questi: il linguaggio come congiunzione per rifondare la coppia, l’unità duale, dunque il linguaggio come luogo dell’alterità), dove l’errore che nasce dalla confluenza di una lingua dimenticata o quasi, quella della cultura popolare stravolta e soppiantata dalla nuova cultura dell’omologazione-comunicazione di massa, con una nuova lingua poco masticata e che non rivela radicazioni profonde, si pone come sintomo di un desiderio, in qualche modo strozzato dal bombardamento mediatico, e nelle commistioni totalizzanti dei linguaggi rivela l’inceppo della rimozione, della coazione, della radicazione dimenticata che a tratti emerge frantumando la linearità del discorso, ostacolandone l’andamento in superficie: «esplode il senza corpo / nel cielo fatto a nubi / nate a inqui dai reparti / molecole di acqua / ferretti / acidetti / e vola senz’urtare / sfrutta il Fiat-o / lo gira a tubi / ( r )es/plode / non urta a me / che son carne / sdegna da quand’è risorto» (Augieri, Res…urrezione, in Ghen, n. 2, 1978). L’attacco di Augieri è dunque indirizzato alla “tecnolo-Dia” che ha preso il posto di Dio come fondamento primo; questa posizione rivela già la tensione spirituale dell’autore che diverrà nel tempo via via manifesta con l’abbandono delle istanze sperimentali.

La vicenda di Toti Carpentieri intreccia gli itinerari della memoria, ma di una memoria-luogo, all’interno delle teorie genetiche; l’autore, infatti, aderiva nel marzo Settantasei al Movimento Arte Genetica di Dòdaro, dopo un primo periodo di esitazione. Carpentieri, la cui attività si sviluppa principalmente sul piano critico, nasce pittore, infatti nel Sessantaquattro fondava a Lecce con Giovanni Corallo, Bruno Leo, Salvatore Fanciano il “Prismagruppo” dove la messa in crisi della raffigurazione vedeva il trionfo dell’oggetto e dell’oggettualità dell’opera. Sul primo numero di “Ghen”, del 1977, con l’intervento “Considerazioni sull’arte genetica” enunciava la sua interpretazione del movimento che in parte tradiva quelle che erano le coordinate tracciate da Dòdaro e seguite dagli altri autori. La teoria genetica di Dòdaro oltre a proporre un discorso sull’origine dell’arte e del linguaggio, rintracciandone il primo e fondamentale elemento nel battito materno ascoltato in età fetale (teoria confermata oggi da importanti ricerche scientifiche; una di queste, condotta da Kyra e Annette Karmiloff, nel 2001, pubblicata dalla Harvard University Press, mostra come la sonorità costante del battito materno, i gorgoglii del corpo, i brontolii e i suoni all’interno del ventre, siano gli stimoli fondamentali per il feto. In un secondo momento subentrano i suoni prodotti dal linguaggio) si pone come una teoria del soggetto, in parte allineata con alcune posizioni dell’esistenzialismo e della psicoanalisi lacaniana. Carpentieri, con questo suo primo intervento genetico spostava radicalmente il concetto base del movimento fraintendendone l’origine; ciò che veniva cancellato da Carpentieri era l’idea di arte genetica. Se il primo linguaggio, o protolinguaggio, sul quale poggeranno le successive manifestazioni umane, è assimilabile al battito materno ascoltato in età fetale, allora a ragione Dòdaro ha potuto teorizzare e articolare un discorso relativo ad un’arte genetica. Tale posizione è saltata da Carpentieri che nelle sue considerazioni muoveva verso un’idea genetica come “metodo”, ovvero “metodo genetico” e non più arte: «ed è proprio in tale ottica che io parlerei di “arte genetica”, intendendo la manifestazione artistica come fatto in progress (nessuna novità, ovviamente) che ben s’inquadra nel concetto di estetica generalizzata di cui parlava Restany (aprile 1966) a proposito della socializzazione dell’arte. […] Ne consegue allora che parlerei non tanto di arte genetica, ma di “metodo genetico” sull’arte». In questo caso il salto è doppio, nonché errato. Quanto sviluppato da Dòdaro nei testi teorici dell’arte genetica non illustra una teoria volta alla socializzazione dell’arte e il processo, ravvisabile sullo sfondo della teoria, è un “processo” relativo al farsi del soggetto, non certo dell’opera; il che implica la caduta delle posizioni assunte da Carpentieri. Sul terzo numero della rivista, l’intervento di Carpentieri intitolato “Triplice” spostava ancora il raggio d’azione proponendo un’operazione attinente ai piani della verbovisualità declinata con accenti teorici. Venivano ripresi dal critico alcuni frammenti delle precedenti “Considerazioni” inglobate nella costruzione dell’opera verbovisiva con la quale esprimeva il suo concetto di processo articolato in relazione ai luoghi: «la generazione e la trasmissione dei caratteri ereditari dipende anche dal luogo di nascita e dallo spazio vitale». In questo caso la dimensione del processo è anche un’indagine sulla memoria individuale (caratteri ereditari) come radicazione nei luoghi, «luogo di nascita» e «spazio vitale» che contribuiscono a generarla.

Armando Marrocco è nato a Galatina, provincia di Lecce, nel 1939. Pittore, scultore, autore di libri oggetto, pratica i territori dell’arte comportamentale nonché della verbovisualità. L’attività di Marrocco inizia precocemente. A Lecce è notato da Francesco Saverio Dòdaro il quale nella progettazione del negozio di Vittorio Adreatta, nel 1960, commissiona al giovane artista una grande scultura in cemento. Sempre nel Sessanta Marrocco assiste a Milano alla storica mostra del Nouveau Realisme presso la Galleria Apollinaire, maturando l’idea di trasferirsi nella città meneghina, cosa poi avvenuta grazie anche all’intervento di Lucio Fontana che sostiene questa sua idea dopo aver visionato alcune opere. A Milano è ospitato per un primo periodo da Piero Manzoni. Dopo una prima fase legata all’informale materico è sedotto dal fascino dei nuovi materiali che l’ondata del Nouveau Realisme ha introdotto nell’arte. Tiene la sua prima mostra milanese nel 1966, nel 1976 è, invece, tra i primi firmatari del manifesto del Movimento di Arte Genetica fondato da Dòdaro. Proprio sulle pagine di “Ghen”, nel primo numero datato al 1977, Marrocco propone un discorso incentrato sulla memoria dove la presa in considerazione, e la messa in evidenza del corpo, diventano attraverso il materiale fotografico elementi che fissano il dato memoriale cristallizzando il presente in una forma che guarda al rapporto dell’uomo con l’ambiente. Il dato interazionale dell’autore era peraltro già evidenziato quando nel Sessantotto realizzava l’opera “Uomo e formica”, ovvero un libro oggetto in plexiglass al cui interno erano presenti muschio, legno, terra, formiche vive. Ugo Carrega, maestro della poesia visiva e delle nuove scritture, noterà la componente verbovisuale e/o autorale nell’opera di Marrocco invitandolo a prendere parte a diverse mostre, fra queste: La Nuova scrittura (Mercato del Sale, 1977), Scrittura attiva (Mercato del Sale, 1979). Negli stessi anni era ancora attivo all’interno del Movimento Arte Genetica continuando a sviluppare un discorso capace di spaziare fra poesia visiva e narrative art sul filo della memoria personale. Nel 1978 sulle pagine di “Ghen” comparivano le opere “Mia madre e mio padre, possibili ingegneri genetici” e “Action remembering”. Con la prima proponeva una foto dei genitori, appunto gli ingegneri genetici, radicando l’indagine condotta sulla memoria alle dinamiche della narrative art, dove, in questo caso, la narrazione era condotta dal titolo, perfettamente inquadrato nelle teorie genetiche, senza inserimenti calligrafici, e il dato evocativo della foto “rubata” a qualche cassetto aumentava il grado empatico dell’operazione e della narrazione. Con “Action remembering”, invece, presentava una foto, ancora “rubata” da qualche memoria, da qualche cassetto, nello stile della narrative art, e la rattoppava, in quanto strappata, ricostruendola, cucendola, recuperando la memoria e costituendo lo sforzo di ritrarre dall’oblio il ricordo, compiendo l’azione del ricordare compiva l’azione del riparare il trauma che aveva prodotto la dimenticanza, ricostruendo la foto ricostruiva se stesso.

Poesia qualepoesia/01: Apertura per salti e altro dire

Poesia qualepoesia/02: Premessa storico-contestuale

Poesia qualepoesia/03: Unità di politica, arte e scrittura. La poesia visiva a Taranto

Poesia qualepoesia/04: Michele Perfetti

Poesia qualepoesia/05: Anni ’60. Ricerche verbo-visive in Puglia

Poesia qualepoesia/06: Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce

Poesia qualepoesia/07: Le microscritture di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/08: Una inesaurita ricerca. L’opera di Dòdaro tra parola e new media

Poesia qualepoesia/09: Franco Gelli. O poesia, o follia

Poesia qualepoesia/10: Antonio Massari. Oh abitare in una rosa di 25 stanze

Poesia qualepoesia/11: Giovanni Valentini. Particolari di una poesia come progetto

Poesia qualepoesia/12: Ilderosa Laudisa. Paesaggio umano

Poesia qualepoesia/13: Francesco Pasca. La singlossia nel racconto

Poesia qualepoesia/14: Vittorio Balsebre. Nel segno dei fotograffiti

Poesia qualepoesia/15: Fernando De Filippi. Arte e ideologia

Poesia qualepoesia/16: Altri luoghi e momenti del verbo-visivo in Puglia

Poesia qualepoesia/17: Oronzo Liuzzi. Elementi di una poetica esistenziale

Poesia qualepoesia/18: Vincenzo Lagalla. La parola come luogo

Poesia qualepoesia/19: Franco Altobelli. Il motivo dell’incognita come matrice

Poesia qualepoesia/20: Antonio Verri. Il corpo che racconta

Poesia qualepoesia/21: Raffaele Nigro. Il parlare sconvolto

Poesia qualepoesia/22: Edoardo De Candia, relazioni liminali del segno

Poesia qualepoesia/23: Lo svuotamento della scrittura. L’asemic writing in Puglia

Poesia qualepoesia/24: Antonio Noia. Geometrie: del segno, della parola

Poesia qualepoesia/25: Francesco S. Dòdaro: dal modulo all’Internet Poetry

Poesia qualepoesia/26: La strada nuova e il Laboratorio di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/27: La scrittura mediterranea di Vittorio Del Piano

Poesia qualepoesia/28: Beppe Piano. Dinamiche variazioni di senso

Poesia qualepoesia/29: Glitch. Appunti per un itinerario pugliese

Poesia qualepoesia/30: Antonio Verri: metropoli, oggetti, altre scritture

Poesia qualepoesia/31: Le scritture di Vincenzo Ampolo e Marilena Cataldini

Poesia qualepoesia/32: Vitantonio Russo l’Economic Art

Poesia qualepoesia/33: Egidio Marullo: la scrittura defigurata

Poesia qualepoesia/34: Beppe Bresolin, elementi di poesia concreta

Poesia qualepoesia/35: I romanzi visivi di Mimmo Castellano

Poesia qualepoesia/36: Cristiano Caggiula: proliferazione di segni e criticità sociali

Poesia qualepoesia/37: Profili: Nuzzolese, Maglione, Corallo, Fanciano, Leo, Buttazzo, Dimastrogiovanni

Poesia qualepoesia/38: Nadia Cavalera, Amsirutuf: enimma

Poesia qualepoesia/39: L’uomo come segno in disordine. Note sull’opera di Cristiano Caggiula

Poesia qualepoesia/40: Vittorino Curci, Inside 1976-1981

Poesia qualepoesia/41: Vittorino Curci, l’allargamento del segno

Poesia qualepoesia/42: Rossana Bucci, il taglio della superficie

Poesia qualepoesia/43: Fernando Bevilacqua, gestoscrittura: l’immagine, il suono, la traccia

Poesia qualepoesia/44: La radice informale nella verbovisualità di Vandagrazia De Giorgi