Poesia qualepoesia/47: Profili: Guido Pensato, Vito Capone, Dario Damato, Domenico Carella

Opera di Guido Pensato

Opera di Guido Pensato

Rubrica a cura di Francesco Aprile

A partire dagli anni ’80, il fermento manifestatosi a Foggia nel decennio precedente, consente lo sviluppo di nuovi scenari che hanno poi comportato tutta una serie di mostre di poesia visiva. Centrale è per l’area del foggiano la figura di Guido Pensato. Nel secondo ‘900, Foggia è interessata da un fermento che porta alla nascita di una serie di spazi associativi ed espositivi, fra questi: Circolo Bertolt Brecht, Teatro Club, Circoli del Cinema, Laboratorio Artivisive, Coordinamento per la comunicazione e le arti visive, Art’inFabrica. La mostra “Poesia visuale/nuova scrittura”, a cura di Guido Pensato, svoltasi nel 1980 presso il Laboratorio Artivisive evidenzia questa tendenza contribuendo ad introdurre e articolare sul territorio i nuovi linguaggi di area poetico-visuale.
L’indicazione “nuova scrittura” ad accompagnare i termini precedenti, “Poesia visuale”, contribuisce a connotare l’operazione-mostra proposta da Pensato con una più fluida esplicazione scritturale, dove il concetto stesso di scrittura, e parola, risulta esteso nel coinvolgimento di pratiche e materiali collaterali che allargano il campo d’azione e, dal collage, procedono oltre, verso quei litorali della nuova poesia elaborati da Ugo Carrega il quale nel solco e, anche, internamente alle operazioni targate Martino Oberto, dunque “Ana Eccetera”, aveva già contribuito ad avviare un discorso altro per la poesia visiva, affrontando in maniera radicale le tematiche dell’extraletterario e dell’azione poetica nei termini di pensiero e parola capaci di guardare a libertà di movimento, flusso grafico, anarchismo letterario, autorale, tonalità e nuclei sonori, semanticità naturale, intellettuale, formale e grafica, forme aperte o chiuse, colore come rafforzativo-emotivo, la pagina bianca come emozione pura, tonalità cromatica, flusso sonoro, combinandone gli elementi nell’alveo di una proposta di allargamento del settore autorale.
Guido Pensato, foggiano, è stato prima vicedirettore, quindi direttore della Biblioteca Provinciale e del Sistema bibliotecario di Foggia, componente del primo Consiglio nazionale dei beni culturali (1976-81) e del Direttivo nazionale dell’Associazione italiana biblioteche (1975-81). A Foggia, a partire dagli anni Sessanta ha preso parte all’ideazione delle iniziative di alcuni gruppi della sua città, quali Circolo Bertolt Brecht, Teatro Club, Circoli del Cinema, Laboratorio Artivisive ecc. Nel 1981, assieme ad alcuni artisti riuniti attorno al Laboratorio Artivisive (Matteo Accarrino, Vito Capone, Michele Chiapperino, Sergio De Sandro Salvati, Augusto De Stasio, Cristiano Lella, Franco Tretola) partecipa all’Expoarte di Bari, dove presenta l’opera intitolata “Alfabeto” con la quale, intendendola come un manifesto, ripensa l’alfabeto nei termini di un dover “sembrare le forme del mondo”. Lo sguardo di Pensato affonda in pulsioni ludico-civili, sconfinando nella contaminazione propria dell’area “simbiotica” della poesia visiva, lavorando con materiali fra i più disparati i quali concorrono nel suo percorso a tracciare gli itinerari di una poesia che si dà come installazione, quasi paesaggio visivo fra sperimentazione e mimetismo. L’indagine condotta da Pensato, collocabile sui versanti della “nuova scrittura”/”scrittura simbiotica”, si produce in un mix di scrittura e materia dove l’accentuazione della materia è caratteristica che non procede solo dal dato gestuale della grafia e dal materializzarsi dell’inchiostro/vernice, ma vive nella compresenza di parola, alle volte calligrafica altre ancora mutuata dalla comunicazione giornalistica, e oggetto dove il mimetismo della parola è nel suo essere già oggetto, materia manipolabile, ma in una qualità differente da quanto, ad esempio, avviene nella materialità della parola nella poesia concreta; qui il libro è ridotto alla violenza grezza della deturpazione che acquista un senso estetico-informale e diviene quasi parola-scultura, modellata nella sua interazione con lo spazio, dove il suo intervento nello spazio è a sua volta interventato dal contesto. Il senso dismesso degli utensili da lavoro, la ruggine, la deformazione degli attrezzi, il fil di ferro che avvolge il libro, la parola, diventano materiali di una scrittura-rete che intreccia i fili della parola “cultura” con la manualità del fare e riconducono la parola stessa alla quotidianità; qui si realizza il doppio vincolo di una parola che agisce il contesto in cui è inserita e sua volta è agita dalla sua contestualizzazione. Per altra istanza l’uso di superfici trasparenti sul quale stendere il flusso calligrafico della scrittura mira alla resa installativa, nonché mimetica, della parola poetica che risulta attraversata dal paesaggio, diventando essa stessa paesaggio, elemento attraversato, luogo di transito. La parola, in ulteriore veste, diventa povera, nell’accezione poverista come qualità presa in prestito dal mondo dell’arte, dipanata su materiali grezzi e incastonata all’interno di sagome umane si accende, diventando corpo, forma, dimensione spaziale.

Vito Capone, pittore, autore di libri d’artista, nato a Roma nel 1935 da genitori salentini, ha compiuto studi artistici a Napoli. Ha insegnato Tecniche pittoriche presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia, di cui è stato direttore dal 1988 al 1991. Dalla fine degli anni Cinquanta partecipa a mostre collettive e realizza personali in tutta Italia, da Napoli a Roma, da Foggia a Milano, da Lecce a Firenze, e poi Brescia, Noci, Trento, Rovereto ecc., ma non manca di esporre le sue opere all’estero come quando, nel 1970, espone a Barcellona nell’ambito del IX Premio Internazionale Mirò (prendendovi ancora parte in altre edizioni), e poi a Pamplona nel 1977 e nello stesso anno a San Francisco, Madrid (1981), Budapest (1985) sono solo alcune delle mostre che concorrono a formare l’itinerario espositivo dell’autore. Nel 1987, il critico Filiberto Menna scriveva: «C’è una esperienza dell’arte che ricorre di frequente nelle vicende artistiche contemporanee, una esperienza orientata verso procedimenti di riduzione linguistica, spinti a volte fin quasi a una sorta di grado zero, di “un grado zero della scrittura”. Si tratta di un fenomeno di smaterializzazione dei mezzi espressivi, che si sottraggono non solo alle richieste della rappresentazione ma anche, a volte, alla ricchezza coinvolgente del colore. […] Sono i segni appunto dell’arte di Vito Capone, che da molti anni ormai rimane fedele alla linea artistica della riduzione, sospinta ancora una volta fin quasi al limite dello zero». Il percorso di Vito Capone sconfina con agilità dalla pittura in un dialogo serrato con le correnti del libro d’artista e della poesia visiva, dove si registra l’ingresso in punta di piedi della scrittura, la quale è disarmata, immobilizzata, resa a-scrittura in un agglutinamento materico che produce eccessi di tattilità e materialità i quali concorrono a restituire, nel bianco su bianco adottato da Capone, la scrittura ad una dimensione di traccia. Le pagine, bianche, impresse in una materia ipertrofica, dominante ed espressiva, accolgono in rilievi appena accennati una pastosità della materia che si dipana in forma di scrittura asemantica, che sfugge un significato socialmente istituito ed ogni forma di alfabetizzazione e ritrova, anzi, una sua grammatica nella sola esaltazione della materia, nel senso manuale del fare. I libri di Capone diventano così dei libri da guardare e trovano ambiti di reciprocità con l’operato di Maria Lai, anche nel comune ricorso a tessuti, nella fondamentale differenza dell’abisso materico che separa i due percorsi; quello di Capone è infatti un lavoro del corpo sul corpo in cui se da un lato avviene una “rinuncia”, per dirla con Menna, ai mezzi espressivi, è pur vero che tale rinuncia è indirizzata alla smaterializzazione di mezzi consueti, quali il colore che in una civiltà dell’immagine è fra le componenti dominanti, dall’altro, è proprio la densità delle forme scritturali appena accennate, in concomitanza con un agglutinamento che spinge la materia all’accesso a rendere espressiva questa profondità della materia adottata dall’autore.

Peculiarità che sembra emergere dallo scenario foggiano è quella di un carattere “immersivo” dell’opera all’interno di un paesaggio e/o di uno spaccato materico indefinito che risponde, come nel caso di Capone, ad un territorio della geometrizzazione della scrittura. Laddove una realtà può essere geometrizzata, che sia paesaggio o scrittura, allora deve esistere un qualcosa di indefinito, sembrano riecheggiare le operazioni di questi autori, quasi chiamando in causa il tessuto teorico anassimandreo. Da ciò non differisce l’opera di Dario Damato. Nato a Barletta nel 1937, ha operato a Foggia fino al 2013, anno della morte. Ha allestito oltre duecento mostre, in Italia e all’estero, ottenendo riconoscimenti importanti, fra questi quello Senato Italiano (1973) e del Presidente della Repubblica (1974). Hanno scritto di lui Palma Bucarelli, Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Luciano Caramel, Lamberto Pignotti ecc., mentre nel 1967 il regista Massimo Mida gli ha dedicato un lungometraggio, poi premiato a Cannes. Ha diretto l’Accademia di belle arti di Foggia. Pittore, ha saputo operare una personale sintesi fra pittura e correnti verbovisive. Il suo linguaggio segnico-espressivo compatta sulla superficie elementi di una pittura espressionista e al contempo segni calligrafici, parole e paesaggi. Il tessuto paesaggistico è accennato, figurato in maniera veloce, ma non rinuncia alla spigolosità geometrica dei monti dauni che sembrano emergere da un fondo indefinito in cui trionfa il colore. Su tutto si muovono, quasi fossero ulteriori elementi del paesaggio, rapidissimi segni calligrafici sulla falsariga di elementi propri del graffitismo e al paesaggio naturale segue la tessitura di un paesaggio urbano e/o proprio del mondo della comunicazione, con immagini e accenni di parole e pagine che si danno impercettibili, ricoperti dal colore; si situano al di sotto dello sfondo, della campitura, sancendo la presenza di uno sfondo dello sfondo, dove alla geometria dei monti segue, dietro, l’indeterminato del colore, dello sfondo, sul cui retro, si stagliano, in trasparenza, sfondo dello sfondo, gli elementi della comunicazione pubblicitaria, giornalistica, i quali diventano paesaggio, rumore, riverbero continuo. I paesaggi verbovisivi di Damato fondono il paesaggio naturale con la comunicazione, la parola e il graffitismo, elaborano una poetica del colore e del segno che ricorda all’osservatore quanto ogni elemento sia tale perché raccolto, o accolto, all’interno di una prospettiva linguistica. In particolare, l’afflato segnico di Damato effettua una convergenza fra il graffitismo, la poesia visiva e i segni del territorio foggiano, primi fra tutti gli elementi incisi sulle stele Daunie, costruendo una poetica dei luoghi capace di intercettare dimensione storica e contemporaneità.

Domenico Carella (Foggia 1976-2016) ha effettuato studi artistici nella sua città presso l’Istituto d’Arte Perugini e in seguito presso l’Accademia di Belle Arti, dove ha concluso il suo percorso di studi con una tesi dal titolo “Tempo come visione”. Nel 2008, dopo essersi trasferito a Milano, ha conseguito un master curatoriale in “Landscape design” presso l’Accademia di Brera. Ha inoltre frequentato lo studio di Giuliano Mauri e intrattenuto rapporti con Alberto Garutti, Stefano Arienti, Paolo Rosa (Studio Azzurro). Artista visivo, ha sperimentato l’utilizzo di oggetti all’interno di installazioni. Sui piani della verbovisualità l’opera di Carella assume le coordinate del collage di parole, laddove l’autore si prodiga nella costruzione di tappeti verbali denominati “Paesaggi verbali” nel segno della ricerca di Nanni Balestrini; non è un caso che il nome scelto, “Paesaggi verbali”, sia un prestito dalla florida ricerca di Balestrini. Proprio come il poeta del Gruppo 63, la produzione di Carella mostra la costruzione di strati di parole, i quali concorrono a sancire il flusso della comunicazione seppure nelle sconnessioni che derivano dall’eccesso di parole. Questi paesaggi, quasi campiture di parole, drappeggi di linguaggio, escono poi dagli spazi deputati all’opera per rivestire oggetti e altri materiali estranei ad una dimensione paesaggistica. Ciò comporta l’accettazione dello statuto pervasivo dei linguaggi della comunicazione e la conseguente messa in opera di questa “invasione”.