“Football Hooliganism” di John Clarke

Il dibattito sulla violenza nel mondo del calcio viene spesso affidato a interlocutori improvvisati, in grado di analizzare il fenomeno soltanto in superficie e di proporre soluzioni già fallite in passato. E invece, come sempre, sarebbe necessario studiare a fondo l’origine di determinati comportamenti, e come essi si sono evoluti nel corso degli anni in seguito al ricambio generazionale dei frequentatori delle curve degli stadi. Dietro il «No al calcio moderno», slogan che unisce gruppi ultras di tutto il mondo, si nasconde proprio la miccia che negli anni Sessanta e Settanta in Gran Bretagna ha dato origine al fenomeno degli hooligan. E che da lì si è poi irradiato in tutto il mondo, pur con sfumature e con esiti evidentemente diversi.

Football hooliganism è appunto il titolo di un recente libro che prova a far luce sulla nascita dei gruppi violenti negli stadi inglesi, attraverso le parole di John Clarke, uno dei primi studiosi del fenomeno, attualmente visiting professor al Dipartimento di Sociologia e Antropologia sociale alla Central European University e professore emerito alla Facoltà di Arte e Scienze sociali alla Open University. Un’operazione editoriale di grande merito accademico e divulgativo, promossa da Luca Benvenga, dottorando di ricerca in Human and Social Sciences all’Università del Salento, nonché curatore e traduttore dei due saggi di Clarke riprodotti nel libro, uscito per la casa editrice DeriveApprodi (pp. 112, euro 11).

Clarke inserisce i suoi studi sulla violenza nel calcio in una «cornice teorica di chiara ispirazione marxista», e coglie nel football hooliganism le spie del rifiuto «di un modello-calcio che si sposta coattivamente verso la professionalizzazione (cura della tattica, studio delle situazioni di gioco, ecc.), la commercializzazione (tribune coperte, social club per i tifosi, ecc.) e la spettacolarizzazione (presenza di cheerleader […] ecc.)». Sullo sfondo, oltretutto, di un senso di frustrazione e di malcontento generale nei confronti della società. Tutto ciò produce, tra i figli della classe operaia, una profonda divisione: siamo alla fine degli anni Sessanta, e se c’è chi scende in strada per rivendicare i diritti della collettività, c’è anche chi fornisce una risposta diversa al senso di frustrazione, entrando a far parte dei primi gruppi Skinhead e sfogando la rabbia negli scontri con tifoserie avversarie e forze dell’ordine.

In questo secondo caso, la frustrazione avviene anche nel contestare l’«imborghesimento» del calcio in quegli anni, nei quali – scrive Clarke, nel primo dei due saggi tradotti da Benvenga – «il tifoso “genuino” non è più l’operaio tradizionale che vive nell’attesa del sabato […], è al contrario, il consumatore razionale e selettivo dei servizi di intrattenimento, che commenta dal suo comodo posto in tribuna». E la divisione sociale che si ritrova sugli spalti produce, in quegli stessi anni, un cambiamento anche sul rettangolo di gioco. Dove i calciatori diventano a tutti gli effetti delle star. Un effetto che oggi consideriamo naturale, e che invece chi ha studiato o chi ricorda il calcio pre-professionalizzato conosce bene.

Stefano Savella