“La scatola di cuoio”, di Gianni Spinelli

Tutto accade nel più sconosciuto dei paesini della provincia di Matera, San Clemente, ignorato da tutti, anche dalle più aggiornate carte geografiche. Un’invenzione letteraria, certo, ma potrebbe trattarsi di qualunque provincia italiana, dagli sconosciuti borghi lacustri dei romanzi di Piero Chiara, a quelli della Bassa Padana in cui è ambientato Il signor Diavolo di Pupi Avati, ai paesini siciliani di Vitaliano Brancati. La storia di Gianni Spinelli, in altre parole, potrebbe essere ai confini della realtà, una realtà che parla di un’Italia minore, ma non per questo meno interessante o meno viva. Un’Italia che unisce con le sue contraddizioni, vive in spazi limitati, dove i confini non si aprono, ma si chiudono. Una provincia dove ritroviamo, senza distinzioni tra nord e sud, numerosi limiti, soprattutto mentali, chiusure al nuovo, pregiudizi ristagnanti da tempi antichi, dove peccare diventa un obbligo, trasgredire un’abitudine.

Le vicende si svolgono tra la fine degli anni Cinquanta fino all’inizio dei Settanta, anni del boom economico e di non poche trasformazioni socio culturali. Non per San Clemente, immersa nelle nebbie del suo non essere. Spazio e tempo risultano ininfluenti all’intera storia, che si occupa invece della commedia umana, caratterizzata dai suoi vizi e dalle sue virtù, queste ultime molto poche in realtà, come scopriremo nella lettura.

Il romanzo parte da un oggetto misterioso, contenuto nella scatola di cuoio, e da una consistente eredità di un oscuro frate cappuccino, il Provinciale, appunto. Di lui si intravvedono abitudini poco consone all’abito che indossa e strani pruriti. Pagina dopo pagina, il lettore entra in una casa enorme, con tantissime stanze, alcune segrete, avvolte in un fitto mistero. Qui si muovono i personaggi del libro, ognuno con un ruolo preordinato. A partire da Antonio, un “quasi geometra” che compare all’inizio, incantato dall’oggetto misterioso, che erediterà per scelta convinta, per scomparire anche lui e riapparire, in seguito, beffardo, con un ruolo decisivo.

Se “il fascino dell’ignoto domina tutto”, come sottolinea Spinelli, sono il mistero, i segreti, coperti dall’omertà e dall’avidità, ad accompagnarci, tra continue sorprese. La cifra ironica tessuta dall’autore copre con maestria situazioni e interpreti, facendoci sorridere. Cosa dire, ad esempio, degli sprovveduti carabinieri che devono divincolarsi in questa intricata e infinita storia della morte del cappuccino o del “giornalista” alla ricerca dellanotizia-scoop, anche stravolgendo forzatamente la realtà? Oppure degli orribili baffi di zia Marta di fronte ai quali viene invocata la legittima difesa?

Fra i temi della Scatola, è interessante fermarsi sui ritratti delle donne e delle loro “non virtù”. Sappiamo Spinelli attento osservatore dell’animo femminile, da Settanta volte donna a Tutta colpa di Eva (Gelsorosso). Anche questa volta la sua penna non delude, con pagine bellissime, come quelle in cui due delle giovani nipoti di zia Marta indossano settanta cappelli e settanta collane nella stanza degli specchi. Che sia 70 il numero magico di Spinelli?

Una commedia corale, di costume, dove non tutto si dice o si sa, molti i pettegolezzi e i vizi sottaciuti, dove la curiosità si mischia al desiderio di trasgressione e forse di uscire dalle strette mura di quei luoghi. Ma nessuno fugge, restano tutti inghiottiti dalle loro stesse vicende, vittime di un mondo di ignoranza, legati stretti alla roba, che li tiene avvinghiati ai luoghi. L’unica fuga sarà la scatola di cuoio di Antonio Forini.

E se è vero come ci ricorda Spinelli, che “in ogni istante della nostra vita abbiamo un piede nella favola e uno nell’abisso”, possiamo affermare con certezza che il nostro autore abbia messo sempre i piedi al posto giusto, senza alcun inciampo, camminando sempre con passo sicuro e professionalità.

Amalia Mancini