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“Scrittori ed artisti pugliesi, antichi, moderni e contemporanei” di Carlo Villani (1904)

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Ricollegandoci all’editoriale del numero di febbraio del nostro magazine, prossimamente disponibile, agli scrittori pugliesi vogliamo dedicare anche la rubrica Cent’anni di solitudine. Presentiamo infatti ai lettori alcuni stralci dell’introduzione al volume Scrittori ed artisti pugliesi, antichi, moderni e contemporanei, pubblicato da Carlo Villani a Trani, presso il tipografo-editore Valdemaro Vecchi, nel 1904. L’opera raccoglie una serie di voci biografiche relative ad artisti pugliesi; l’arco cronologico è molto ampio, si parte infatti dal V sec. a.C. con Archita di Taranto per arrivare al XIX secolo. Nei brani qui proposti l’autore vanta con orgoglio la produzione artistico-letteraria pugliese, e fa notare ai pugliesi che, sebbene essa sia poco nota, in realtà presenta una sua precisa identità e non è inferiore alle produzioni di altri paesi. Un giudizio molto positivo sull’opera di Villani fu espresso anche dalla scrittrice Matilde Serao in un suo intervento apparso su «Il Giorno» di Napoli nel 1920, sotto lo pseudonimo Gibus, di cui diamo in coda alcuni passaggi.

L’esortazione di Villani ad apprezzare la produzione culturale pugliese suona oggi ancora attuale e ci è sembrata in linea con lo spirito da cui è nato il progetto «Puglialibre»: rivalutare e promuovere i libri di autori pugliesi o dedicati alla Puglia.

«A che valgono i monumenti, a che valgono le storie, a che le biografie innanzi alla caducità del tempo, alla potenza distruttrice dei secoli? […] È sentenza ormai vieta che una miriade di mondi, durati più o meno tempo, si siano dileguati nel mistero del nulla pei continuati ignei rivolgimenti della massa terrestre. Chi più li ricorda? Chi più ne sa notizia? […] Ed io che non credo dunque alla perpetuità della rinomanza, per quanto titanica possa impegnarsi una lotta col tempo, pure ho scritto, anzi pubblico, questo mio Pantheon di scienziati, letterati ed artisti, che, a prima vista, ha tutte le pretese di volere eternare i nomi di tanti illustri. Ma non è per questo che io scrissi».

«Io scrissi invece guidato soltanto da un sentimento di campanile, dall’orgoglio vivo e tenace di mostrare a chi lo ignori o finga d’ignorare che la Puglia, questa cara terra irradiata dal bacio più cocente del sole, questa patria mia diletta, non è ricca soltanto di bianchi e pingui oliveti, di olezzanti boschetti d’arancio, di vigne riboccanti di grappoli dorati e rosseggianti, di alte e bionde spighe reclinanti la testa per opulenza di seme […] ma è feconda altresì di pianta più rara e peregrina, qual è quella che forma il nobile e invidiabile patrimonio di ogni essere umano: l’ingegno».

«E mi rivolgo più specialmente ai miei conterranei, perchè, a preferenza, sono essi medesimi ignari ovvero anche sconoscenti e obliosi delle nostre più belle glorie: ‒ credendosi al di sotto di chiunque venga importato d’oltre i propri confini, si mostrano per lui facili e proclivi alla lode e all’entusiasmo, nonchè a tributargli quegli onori che van negati sovente ai proprii concittadini, il che suona offesa a sè stessi ed alla propria dignità».

«I Pugliesi in generale ben dovrebbero scuotere finalmente quella certa inerzia un po’ orientale, che è nelle loro fibre e nel loro carattere, inerzia che li fa essere indifferenti, noncuranti di tutti e di tutto, e, orgogliosi, come la Cornelia romana, dei loro figli, costringere ad inchinarsi innanzi ad essi quanti che, piombandoci addosso o dal nord o dal sud, credono, con aria spavalda da conquistatori, di apportare nella nostra regione, avvilita a mo’ di una Cenerentola, quasi un raggio di luce o di civiltà nell’eterna notte dell’ignoranza».

«Non è un volume di milletrecentottantasette pagine, edite nitidamente ed elegantemente dal Vecchi di Trani, quello che ha pubblicato l’egregio avv. Carlo Villani, ma un vero monumento di amor patrio che ha elevato alle lettere e alle arti di Puglia, un monumento che è costato anni di lavoro, di studii, un monumento di cui tutta la regione pugliese dovrà essere grata a Carlo Villani. […] egli ha dato pruova di una fatica intellettuale formidabile, in cui la precisione, la copiosità, l’ordine sono ammirabili. Questo grosso volume è un’opera preziosa a leggere, preziosa a consultare» (Gibus).

L’anticlericalismo su «Il Tribuno Salentino» nel 1909

L’anticlericalismo, ha rappresentato per alcuni decenni della storia d’Italia, e in particolare agli inizi del Novecento, una parte consistente del dibattito politico nazionale e locale (si pensi alle posizioni, tra gli altri, di Gaetano Salvemini). In questo numero vogliamo riproporre alcuni stralci di articoli pubblicati esattamente cento anni fa da un periodico leccese, «Il Tribuno Salentino», d’ispirazione repubblicana e promotore del «blocco popolare» tra il 1908 e il 1910. Gli stralci sono tratti da un saggio di Carmel Bredariol inserito nel secondo tomo degli Studi in onore di Mario Marti (Congedo, Galatina 1981). Notevoli gli spunti di riflessione, che specialmente negli ultimi due brani accarezzano da vicino l’attualità dei nostri giorni. Il secondo brano approfondisce invece gli aspetti di preciso impegno politico, e non di vuota propaganda, del «blocco popolare» nel Salento: laicità dello Stato, abolizione del Fondo per il Culto e dell’insegnamento religioso nelle scuole, introduzione del matrimonio civile e del divorzio.

«Ai preti, ai frati, alle suore, ai clericali di Lecce non basta […] il monopolio della direzione, o dell’amministrazione – o di tutte e due le cose – degli istituti di beneficenza e assistenza pubblica […]. Non basta più la larga tolleranza da parte di tutte le autorità – politiche, scolastiche e sanitarie – delle loro scuole, per la istruzione elementare e secondaria, e dei loro convitti privati […]. Non basta la supina tolleranza dell’autorità politica della provincia per la ricostituzione che essi vanno compiendo qui, come nel resto d’Italia, lentamente, ma pure audacemente, sotto gli occhi di tutti, delle soppresse corporazioni religiose, e della soppressa manomorta […]. Non basta tutto ciò, tanto dominio, vero, reale nella vita privata e pubblica, cittadina e provinciale […]. Vogliono i clericali affidate a uomini di parte loro […] le pubbliche amministrazioni – Congregazioni di Carità, Comune, Provincia […]. Vogliono i clericali, ormai anche avere il deputato politico, non ancora di parte loro, ma con loro compromesso, almeno segretamente, per agevolare, per ora, il graduale impossessamento di tutti gli organi della pubblica amministrazione […]. Ed è superfluo dire […] che l’avanzata – sia pure coperta, cauta, abile – dei clericali, importa la più grave minaccia a tutte le conquiste della rivoluzione italiana che sono conquiste della civiltà e del progresso» (12/2/1909).

«E più di tutto opera educativa anticlericale va fatta tra il nostro popolo, al quale bisogna far ben capire che l’anticlericalismo come noi l’intendiamo […] è insieme azione politica in quanto ha riferimento al contegno del governo e dei partiti nei loro rapporti con la Chiesa; azione nella finanza pubblica per ciò che riguarda gli stanziamenti degli onorari pel culto speciale e le amministrazioni del patrimonio ecclesiastico; azione morale per riguardo all’indirizzo educativo da parte dello Stato […]; non opera di persecuzione del sentimento religioso sia pure cristiano, ma opera di difesa contro l’organizzazione clericale che, se vittoriosa, ci riporterebbe nuovamente l’inquisizione, la miseria e l’ignoranza dei tempi del suo dominio» (28/5/1909).

«Il Vaticano disdegna di appoggiare coloro che pur essendo credenti non intendono di uniformare la loro azione agli ordini che piovono dall’alto e regolano la loro condotta secondo la propria coscienza. Il Vaticano preferisce il deputato devoto ma prono ai voleri del Papa anziché il deputato religioso e indipendente» (26/2/1909).

«Or noi non abbiamo pregiudizi di sorta, i quali ci vietino di accostarci a questo o a quel gruppo politico per un fine determinato e preciso; tuttavia non eccessiva fiducia abbiamo in intese troppo larghe, fatte per fini eccessivamente generici. Esse assai spesso servono per paralizzare l’azione dei singoli gruppi che all’intesa accedono […] e riescono a snaturare ogni partito, facendogli perdere – a via di rinunzie e compromessi – la propria fisionomia. Or qui da noi, ove appena si inizia la educazione politica, occorre invece che l’azione singola dei partiti si venga sempre più specificando» (2/4/1909).

“Le relazioni commerciali di Venezia con la Puglia” (1925)

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Per il nuovo appuntamento mensile con la rubrica Cent’anni di solitudine, che riscopre alcuni volumi della storia della Puglia pubblicati circa un secolo fa, presentiamo Le relazioni commerciali di Venezia con la Puglia: è questo infatti il titolo del libro pubblicato nel 1925 dalla gloriosa casa editrice di Valdemaro Vecchi a Trani e del quale proponiamo in questo numero alcuni stralci. Si tratta di un volumetto di 64 pagine scritto dal dott. Marino Colangelo, con un’appendice di documenti inediti tratti dall’Archivio di Stato di Venezia, attestanti i rapporti commerciali tra le due estremità dell’Adriatico occidentale negli ultimi secoli del Medioevo. Di particolare interesse sono le parole riguardanti Federico II di Svevia, della cui figura gli storici pugliesi sono tornati a occuparsi proprio nelle ultime settimane, e sull’opportunismo della Repubblica veneta nei rapporti con il Meridione d’Italia e la Puglia in particolare.

«Uno studio che rivendichi alla terra pugliese la parte importante che essa prese nello sviluppo economico e nelle complicazioni politiche dell’Italia meridionale negli ultimi secoli del medioevo, è vivamente desiderato. Né credo che, almeno per ora, il desiderio degli studiosi possa venire appagato, perché le notizie al riguardo non sono che frammentarie, e mentre l’Archivio di Stato di Venezia possiede una massa copiosa di documenti riguardanti le nostre terre, gli Archivi municipali pugliesi, al contrario, poco o nulla offrono all’interesse dei detti».

«Le relazioni economiche, così bene avviate, tra la Repubblica veneta e la Puglia, sotto i Normanni e gli Svevi, continuarono maggiormente nei tempi successivi. E poiché i documenti da noi presi ad esaminare appartengono all’epoca dei successori di Federigo II, crediamo bene di fermarci alquanto ad osservare l’opera compiuta dal grande Monarca a favore della Puglia, per spiegarci il perché dell’accrescersi delle relazioni economiche fra i due paesi e il gran concorso di mercanti esteri e italiani in questa regione, fin dalla prima metà del secolo XIII. Durante il governo di Tancredi, ultimo re normanno, e di Arrigo VI di Svevia, le leggi e le ultime riforme introdotte da Ruggiero e Guglielmo I erano cadute nell’oblio, venendo sostituite da soprusi, da usurpazioni di terre e di poteri, da ladroneggi e piraterie.[…] Tralasciando da banda tutte le altre disposizioni, un cenno in quelle d’indole economica ci farà conoscere a quale grandezza sarebbe arrivata l’Italia meridionale se contro il Grande Federigo la politica pontificia, sempre pronta a schiacciare il capo di quell’uomo, che un giorno forse avrebbe potuto radunare insieme le sparse membra d’Italia, non avesse suscitato contro di lui ogni sorta di ostacoli e nemici. Pensando quanto vantaggio apportassero al commercio pugliese gli ebrei, il legislatore li trattò generosamente e, stante la tolleranza delle sue leggi riguardo ai forestieri, ordinò ai giustizieri e camerarii che i mercanti i quali tranquillamente attendessero ai loro traffici salubriter et quiete quantunque di città nemiche, dovessero considerarsi come neutrali e perciò non fossero trattati come le leggi della guerra trattano i nemici. E poiché comprese che il commercio progredisce per mezzo degli scambi, pose gran cura nei mercati e nelle fiere, delle quali molte ne furono istituite nel 1234 nei principali e più acconci luoghi del Regno. […] Inoltre l’interesse per la Puglia spinse Federigo a pensare al traffico con l’Oriente, stringendo accordi amichevoli coi principi musulmani».

«Il trattato infatti che seguì immediatamente alle proposte pontificie mostra tali concessioni da parte del Pontefice ai veneziani nella Puglia, ch’essi, coerenti sempre alla loro politica di particolari interessi, dovevano cedere alle insistenze pontificie. Quando si consideri che a far parte della lega erano entrati genovesi, pisani e veneziani contro il Re di Sicilia non si può non biasimare la condotta papale pel gran danno economico che ne veniva agli operosi abitanti delle costiere di Puglia, frequentate soprattutto da mercanti pisani, genovesi e veneziani».

«Ma più oltre andarono ancora nelle pretese i veneziani, i quali si facevano pagare a caro prezzo la loro neutralità nella guerra spietata che contro Manfredi moveva il Pontefice. Essi, difatti, col medesimo trattato, ottengono di poter tenere consoli a Bari, a Trani e in tutti gli altri luoghi del Regno; che i regnicoli potranno trasportare sale e bombace come prodotti del Regno da Zara e da Ancona in giù a Venezia, in pena della confisca del carico ad arbitrio del Doge e del Comune».

“Le proletarie del Tavoliere” di Antonio Lo Re

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Riportiamo questo mese per la rubrica “Cent’anni di solitudine” alcuni stralci del volume Le proletarie del tavoliere, scritto da Antonio Lo Re (docente di Agraria e direttore dell’Orto botanico di Foggia, nato a San Vito dei Normanni nel 1859 e morto a Foggia nel 1920) e pubblicato nel 1910 dalla casa editrice E. Trefiletti di Pescara. Si tratta, va detto subito, di un libro che è lo specchio dell’epoca in cui è stato scritto: non mancano infatti frasi e pensieri che mettono in luce un’idea della donna come soggetto ‘inferiore’ e un’intera tirata contro il «pericolo» rappresentato dai sindacati che all’inizio del Novecento promuovevano tra le fasce più povere della popolazione l’occupazione delle terre e l’educazione come mezzo per raggiungere una vita migliore. L’intento dell’autore è comunque quello di raccogliere le diverse ‘tipologie’ di donne presenti nelle campagne della Capitanata e dell’Abruzzo, dalla mandriana alla terrazzana alla castagnara e via dicendo. Resta, tuttavia, al di là delle opinioni dell’autore, uno spaccato realistico sulle condizioni di vita delle contadine e delle donne dei piccoli paesi della Puglia e del Sud Italia in genere.

«Le “compagnie” delle operaie rusticane scendono, quasi tutte, dalla montagna per i lavori delle grandi aziende, ove dimorano; i quali cominciano dalla potatura per finire alla trebbiatura, cioè dal febbraio all’agosto, senza interruzione, con un salario giornaliero di 70 o 75 centesimi. Però il grande fittaiuolo o proprietario di Puglia per la nuova alta tariffa del lavoro delle donne, ricorre ora ad interruzioni fra un’opera agraria e l’altra con una involuzione dannosa della produzione e della distribuzione della ricchezza.

La moglie del terrazzano lavora tutto l’anno, ora raccogliendo erbe, funghi ed asparagi, ora capperi e fuffole (asfodeli secchi), ora spigolando, ora costruendo scope di cannucce, fiscelle (cesti da caseificio), corde di giunchi, ora impagliando seggiole. Altrimenti si occupa a vendere il prodotto della caccia fatta dal marito e tutto ciò che egli ed ella abbiano raccolto, più o meno onestamente, e conservato. Se il marito è un versuriere, ella lavora il campicello e ne vende, girando per la città, i prodotti: broccoli, fave fresche, piselli, ravani, ecc.».

«Il guadagno della donna diventa pertanto un integrale indispensabile della economia domestica: e risulta, per conseguenza, che un contadino, celibe per principio, non potrebbe essere che un suicida per fame. E potrebbe risultare anche (o io oso troppo nel sillogismo) che il maschio proletario qui s’aduggi sul lavoro della femmina, produttrice di latte per i figli, di minestra pel marito, di fatiga per la casa, in una dedizione di tutto l’esser suo, che forse le dee venire dalla tradizione della legge del Vangelo, radicata nell’anima sua. Povera e semplice anima cui è serbato ancora il grande destino degli umili!».

«La padrona assegna alla castagnara dieci o quindici lire al mese, il vitto e l’alloggio; ma ogni sera le chiede strettissimo conto delle misure di frutta che le ha consegnate; e, se v’è ammanco, in fin di mese ne fa inesorabilmente la ritenuta. E poi, che vitto! e che alloggio! All’avemaria, dopo che le fornatare e i zitielli e i ragazzi che la padrona ha assoldati hanno reso i conti della giornata, tutti si raccolgono attorno a una povera tavola pel pasto comune: grandi piatti di legumi o patate o maccheroni mal conditi e un bicchiere di pessimo vino. Poi gli uomini vanno a dormire alla taverna; e le donne devono riposare in quell’unica stanza, in non più di due grandi letti, promiscuamente. E l’indomani, alle sei, da capo in istrada, sotto tutte le intemperie.

Nell’ultima settimana di Aprile la colonia dei castagnari lascia Foggia per recarsi all’Incoronata a riprendere il suo mestiere. E là, in campagna, la vita è meno triste: e la sera fornatare e zitielli fanno lunghe passeggiate nel bosco e la nostalgia del loro paese di attenua, poi che si avvicina il benedetto momento del ritorno, il 14 Giugno».

“Nella Puglia Dauna” di François Lenormant


Dopo Taranto e Lecce, questo mese diamo spazio nella rubrica Cent’Anni di Solitudine ad alcune pagine di uno dei più importanti testi sulla storia di Foggia e della Capitanata, il diario di un viaggio che l’egittologo francese François Lenormant compì pochi mesi prima della morte, avvenuta nel 1883, dato alle stampe con il titolo À travers l’Apulie e la Lucanie. L’edizione consultata è quella tradotta nel 1917 da Michele Vocino, con il titolo Nella Puglia Dauna, per la Rivista «Apulia» Editrice di Martina Franca, all’interno della «Piccola collana di Apulia» dove trovava spazio una «serie di studi notevoli che i tempi nuovi impongono per la serietà, dignità e incremento della cultura pugliese». Pur affermando che «Nell’attuale stato di cose io non consiglierei mai d’intraprendere un giro in Puglia e in Basilicata se non a chi abbia già fatto in Oriente un tirocinio nel mestiere di viaggiatore», Lenormant esaltava «la cordiale e simpatica accoglienza, l’interessamento a facilitare le mie ricerche» delle popolazioni locali. In queste righe si possono notare alcuni temi ancora oggi importanti per la vita in Capitanata: l’agricoltura, i rischi di incendi e alluvioni, le grandi ricchezze della terra, la premura nel costruire case in piena zona sismica.

La vasta pianura del Tavoliere, la cui monotonia non è attenuata abbastanza dall’orizzonte di montagne che la chiude per due lati, è animata solamente nei mesi d’inverno dagli innumerevoli armenti che scendono dalle montagne; il resto dell’anno non è che un deserto dove non si scorge un solo essere vivente.

Il suolo è assai fertile: messo a coltura quel piano potrebbe essere il granaio d’Italia, o diventare un giardino di vigne e d’alberi fruttiferi, come la Provincia di Bari che gli vien subito dopo verso sud-est, il cui terreno è della medesima natura. Invece esso non è che una steppa nella massima parte incolta, non atta che alla pastura, dove i dissodamenti si vanno sviluppando solo da qualche anno. È l’uomo che ha ridotto questa fertile provincia in tale stato, effetto dell’avidità fiscale e della vergognosa ignoranza economica dei governi che hanno pesato per quattro secoli nel Napoletano, facendo arretrare verso la barbarie la più bella regione della penisola italica, mentre il resto d’Europa s’avanzava nelle vie del progresso e della civiltà (pp. 28-29)

Per aumentare le entrate della dogana di Foggia gli agenti del governo spinsero con tutti i mezzi gli abitanti degli Abruzzi a sostituire il facile allevamento del bestiame in mandrie nomadi alla rude fatica della cultura dei campi, assegnando anche un premio alla pigrizia. Al tempo di re Alfonso novantamila pecore discendevano annualmente in Capitanata: nel 1592 ne vennero quattro milioni e mezzo; e per provvedere al nutrimento di tante bestie nell’estate il pascolo non era solo limitato alle vette dei monti non atte ad altro, ma invase anche d’ogni parte i terreni fin allora ben coltivati, che davano ricchi raccolti di vino, d’olio e di grano. I danni prodotti dalle pecore e dalle capre insieme con gl’incendi causati dall’incuria dei pastori, o anche da essi stessi di proposito appiccati, rovinarono le selve, gradualmente portando al disboscamento e al denudamento dei pendii ed aprendo il fondo delle vallate ai guasti capricciosi dei torrenti che in tal modo li resero inabitabili. Il male così prodotto sarà forse irreparabile per sempre! (p. 37)

Foggia conta oggi ben trentamila abitanti circa. Distrutta completamente da un terremoto nel 1731, è una città in tutto moderna, propria ed animata, che forma la delizia dei buoni borghesi e dei commessi viaggiatori. Le vie sono notevolmente larghe. Le case solidamente costruite, con tetti piatti, hanno generalmente un sol piano sul pian terreno, ciò che manifestamente è fatto per evitare, in caso di un nuovo terremoto, il rinnovarsi d’un disastro pari a quello che la città ebbe a subire or è un secolo e mezzo (p. 44).

“Lecce sotterranea” di Cosimo De Giorgi (1907)

Secondo appuntamento con la nostra rubrica Cent’anni di solitudine che va alla scoperta di libri pubblicati circa un secolo fa sulla Puglia e non solo. Tra i volumi sulla storia del territorio pugliese proponiamo questo mese alcuni stralci del volume Lecce sotterranea di Cosimo De Giorgi, pubblicato dallo Stabilimento Tipografico Giurdignano nel 1907. Nell’opera l’autore traccia i risultati di alcuni importanti scavi archeologici nella città di Lecce da lui diretti, riporta scritti di autori antichi e riflette sull’indifferenza di taluni amministratori pubblici circa la tutela degli scavi archeologici…

«Nel gennaio del 1900 si diè principio alla demolizione delle case che formavano la così detta Isola del Governatore, fra le due Piazze S. Oronzo e Vittorio Emanuele II, perché in quel sito doveva sorgere il nuovo palazzo della Banca d’Italia. Appena compiuto l’abbattimento e incominciato lo scavo dei sotterranei, apparvero le prime costruzioni a grandi massi squadrati, analoghe a quelle già osservate in Piazza degli Ammirati, in Via degli Acaja ed altrove. Questo fatto richiamò la mia attenzione come R. Ispettore dei monumenti; e il Sindaco di quel tempo Cav. Avv. Carlo Russi volle affidarmi l’onorifico incarico di dirigere e sorvegliare gli scavi, raccoglier tutti i documenti di fatto man mano che fossero venuti alla luce, ed a lavoro compiuto fargliene una relazione. […]

Nel settembre del 1901, atterrato il palazzo del Comm. Enrico De Simone, comparvero i primi tre archi del portico esterno del nostro Anfiteatro e l’ambulatorio retrostante e i corridoi convergenti verso l’arena. Fu una luce inaspettata che si proiettò sulle costruzioni antiche osservate sotto al Palazzo della Banca e in altri punti di questa città, e fu il caposaldo per tutte le successive ricerche. Le demolizioni però subirono una interruzione per circa due anni e furono riprese soltanto nel gennaio 1904.

Allora, sotto le case dei Sig. Capone e Guerra, apparvero gli altri archi del portico esterno, e l’ambulatorio retrostante.

Si volevano abbattere anche questi: ma io mi opposi con tutte le mie forze e chiesi l’ausilio del Prefetto della Provincia […] e del Commissario prefettizio pel Comune di Lecce, Cav. Re; ed entrambi spiegarono il più vivo interesse per la conservazione di questo monumento del quale io avevo intraveduto l’importanza sin dal primo avanzo osservato sotto la casa De Simone; avanzo che non mi era riuscito di salvare da una rapida e vandalica demolizione» (pp. VII-VIII).

«Vi è stato in Terra d’Otranto un lungo periodo di tempo, dal XVI al XVIII secolo, nel quale la smania di far risalire le origini di ogni città e borgata alla più remota antichità, invase la mente dei nostri eruditi al punto che ciascuno di essi fece a gara nel foggiare le leggende le più strane e più ridicole. Dove mancavano i documenti si cercò l’origine nella etimologia dei nomi locali. E così Erchie e Racale fecero discendere dal mito di Ercole; Mottola da un Metello proconsole degli Japigi, Massafra da una massa di Africani venuti con Annibale in soccorso dei Tarentini contro i Romani, Oria dai Cretesi guidati da Japige figlio di Dedalo, Nardò dai Coni discendenti dagli Enotri, Lecce da Malenno, figlio di Dasumno, re dei Sallentini. […] È necessario quindi rifare il cammino tenendo a guida l’esame dei documenti tramandatici dagli antichi geografi greci e latini e quello dei monumenti, alcuni dei quali sono poco conosciuti perché non sono stati mai descritti sin qui da nessuno» (pp. 5-6).

«Farà certamente maraviglia il pensare che dell’antica città messapica e poi romana di Lecce non restino oggi che pochi avanzi sepolti sotto le nuove abitazioni. […] Vi sono stati periodi di tempo nei quali la febbre delle demolizioni e delle ricostruzioni di nuovi quartieri, degli sventramenti e dei rinnovamenti edilizii, è stata più acuta e più contagiosa; ha invaso i cervelli dei pubblici amministratori, e si è propagata giù giù sino alle masse popolari. In questi casi si è corso alla cieca distruggendo tutto, senza dar tempo ad una esplorazione scientifica indirizzata allo scopo di ricavar qualche luce sulla topografia delle nostre antiche città. […] Dobbiamo […] confessare che una esplorazione condotta con metodo razionale non è mai stata fatta né in Lecce, né in Taranto» (pp. 86-89).