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“I gemelli di San Nicola” di Vasilij Nemirovič-Dančenko

In una torrida giornata estiva, mentre gli abitanti di Bari Vecchia sono immersi nei chiassosi e consueti rituali della loro vita quotidiana, un evento straordinario sconvolge la pace della Basilica di San Nicola. Una povera pellegrina russa, giunta poche ore prima per inchinarsi alle spoglie del Santo, viene trovata morta dal priore della Basilica accanto all’altare della cripta. Ma non è tutto: vicino alla donna morente si scorge un’altra presenza. È l’inizio di questa «favola della realtà» di Nemirovič-Dančenko, in cui elementi di mistero si intrecciano a una trama dai tratti fiabeschi, dando vita a un affresco che si sviluppa tra le vie, gli odori, i colori, i volti dei bambini e le urla genuine delle donne di Bari Vecchia.

La novella I gemelli di San Nicola di Vasilij Nemirovič-Dančenko è stata tradotta e curata da Marco Caratozzolo, docente di Lingua e letteratura russa all’Università degli Studi di Bari, ed è pubblicata da Stilo Editrice nella collana “Pagine di Russia” (pp. 136, euro 14).

Vasilij Nemirovič-Dančenko (1844-1936) fu poeta, prosatore e giornalista. Fratello del più celebre regista teatrale Vladimir, acquisì grande notorietà per i resoconti ispirati ai numerosi viaggi che compì in varie parti del mondo (tra questi la Spagna, l’Africa, l’Estremo Oriente, il Monte Athos), anche come corrispondente di guerra per i più influenti quotidiani e periodici russi. I luoghi visitati divennero l’ambientazione dei suoi numerosi romanzi e racconti, scritti con uno stile tradizionale russo, ma ricchi di originali elementi paesaggistici e di vita quotidiana. Nell’ultima parte della sua vita, Nemirovič-Dančenko, che non condivise la Rivoluzione d’Ottobre, si stabilì a Praga, collaborando con le maggiori testate dell’emigrazione russa in Europa.

“Eredi di guerra” a cura di Francesco Minervini

Al termine della guerra, in molti italiani che erano stati al fronte prevalse il desiderio di dimenticare. Dopo anni, a volte decenni di silenzio, le loro storie giunsero finalmente, benché frammentarie, a figli e nipoti che non avevano conosciuto le ferite del conflitto, fisiche e psicologiche. Né, soprattutto, la fame: una fame cieca e massacrante, che quando si spalanca all’ingenuità dei vent’anni svela ogni tradimento e inchioda ogni ipocrisia. Eredi di guerra rappresenta esattamente questo: il racconto, dal punto di vista dei figli, di storie vissute da padri che le hanno portate dentro come eredità nascoste.

Il libro Eredi di guerra. Padri e figli nella memoria del secondo conflitto mondiale (Stilo-Grecale, 2022) racconta sette vicende personali di soldati, partigiani, uomini e donne della società civile che riemergono dal silenzio grazie ai ricordi della generazione successiva. Eredi che vogliono «continuare a ripetere quelle storie: perché siano lette, perché siano nostre, perché restituiscano radici ai nostri figli» (dall’Introduzione di Francesco Minervini).

Francesco Minervini vive a Bari e insegna Lettere al liceo classico. Tra le sue pubblicazioni: Si vis pacem. Studi, riflessioni e approfondimenti sull’elaborazione dell’idea di pace nell’antichità greco-romana, di cui è curatore (Aracne 2010); Non la picchiare così. Sola contro la mafia (la meridiana 2015). Per la Stilo ha pubblicato InCanto classico. Autori latini e greci e cantautori d’oggi in concerto (2010); Il grido e l’impegno. La storia spezzata di Michele Fazio (2011); La scuola è un animale politico, di cui è curatore (2013); Sono solo pupazzi. Un giorno con Gaetano Marchitelli vittima innocente di mafia (2014).

“I nuovi anziani e la città” di Letizia Carrera

L’Italia è un Paese che sta invecchiando. La popolazione sempre più anziana e più concentrata nelle città, si rivolge a queste per trovare risposte ai propri bisogni e, in misura crescente, ai propri desideri. Questa nuova domanda muove da una mutata rappresentazione che i soggetti anziani hanno di se stessi e del loro diritto a un protagonismo urbano.

L’analisi teorica dei processi di mutamento in atto è seguita dalla discussione dei risultati di due ricerche qualitative tese a definire una tipologia di atteggiamenti e comportamenti in riferimento al rapporto tra soggetti anziani e città, a partire dalla combinazione di risorse personali, dotazione dei territori in termini di servizi e opportunità, e condizioni dell’esperienza urbana quotidiana. La prima indaga la quotidianità e i livelli di progettualità delle donne anziane; la seconda fa riferimento al modo con il quale gli anziani hanno vissuto lo specifico periodo dell’emergenza sanitaria Covid-19 nel quale, anche a questi soggetti, la città è stata in qualche modo “negata”.

Sono questi i temi al centro del volume di Letizia Carrera, I nuovi anziani e la città. Esperienze, bisogni, desideri, edito da Progedit (pp. 144, euro 15).

Letizia Carrera, professoressa di Sociologia e Sociologia Urbana dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, dirige il Laboratorio di Studi Urbani Urbalab. Si occupa di temi attinenti alla partecipazione politica, al lavoro, anche in un’ottica di genere, e alla città contemporanea e ai processi di mutamento delle condizioni dell’esperienza quotidiana dei soggetti. Tra le pubblicazioni più recenti, ricordiamo, tra saggi e articoli, Marcher dans les rues de Strasbourg. Le piéton réflexif et l’archéologie urbaine (Parigi 2017), Le politiche urbane per l’inclusione. Progettare il terzo spazio (Milano 2020), Epidemie, città e immaginario urbano (Bari 2020); per Progedit, La flânerie. Del camminare come metodo (Bari 2018).

“La canzone di Tommy e Blu” di Paolo Mattana

1976, anno bisestile. In Italia il prezzo di un caffè è di 120 lire, le sale cinematografiche proiettano Taxi Driver e nelle strade impazza la violenza dei nuovi gruppi politici rivoluzionari. Il brigatista rosso Renato Curcio, sopravvissuto ad uno scontro a fuoco con la polizia, viene arrestato. Il nuovo senso di disillusione e smarrimento esce dai solchi dell’ultimo vinile di Claudio Lolli Disoccupate le strade dai Sogni.

Il 1976 è anche l’anno in cui Tommy e Blu, al secolo Tommaso e Kate, si incontrano per la prima volta. Entrambi classe ’67. L’uno nasce in un’umile periferia di Roma, l’altra in una delle città più grigie d’Europa: Londra; Tommaso è il quartogenito in una famiglia di cultura e ricchezza modeste, Blu è figlia di una coppia di accademici. Il primo ha natura focosa, è invaso da una curiosità febbrile, vive per la musica ed il pallone. La seconda, sviluppa sin da subito una «prematura abitudine alla malinconia» (p. 32) e troppo spesso «ha solo voglia di sparire» (p. 40). Per circa quarant’anni i due si rincorrono perdendosi e ritrovandosi, tra oblii e ripensamenti, restando legati, nonostante tutto, un’intera vita.

Tommy e Blu sono i protagonisti del romanzo d’esordio di Paolo Mattana, La canzone di Tommy e Blu (Manni, 2019, pp. 144). Matta, biologo, è nato a Roma nel 1967 ed è residente a Bologna dove lavora presso un’importante azienda farmaceutica. Precedentemente ha pubblicato le raccolte di racconti Fútbol, tango y corazón (Robin 2006) e Per niente facile (Pequod 2015).

L’opera di Mattana è un delicato romanzo di formazione raccontato in prima persona dal protagonista maschile. Sebbene la scrittura paia maturare di capitolo in capitolo con la crescita psicologica ed esperienziale del narratore (operazione pregevole), non risulta sempre ben controllata. L’utilizzo di similitudini e metafore è spesso roboante e rischia di compromettere l’equilibrio del racconto, di per sé raffinato. Nonostante ciò, tra queste ultime, se ne segnalano due di particolare efficacia: quella della carta e del fuoco, utilizzata per descrivere il rapporto di pericolosa attrazione che lega i due protagonisti (p. 52); e il pensiero, terribilmente profondo, secondo cui gli uomini si dividono in due categorie: chi nasce montagna e chi mare. Il primo tipo trova pace nel silenzio di un salotto, all’ombra di un camino, sorseggiando vino; il secondo, invece, riesce a sentirsi vivo solo nel maremoto della vita; a questi due tipi umani, continua l’autore, se ne aggiungerebbe un terzo, l’isola, equazione personale propria a Tommy e Blu.

A fare da cornice al racconto sono alcuni tra i più importanti eventi socio-politici della storia europea degli ultimi cinquant’anni: dal sequestro Moro, allo scoppio della centrale nucleare di Cernobyl’, dalla caduta del Muro di Berlino alla Brexit. Non solo, le avventure dei due giovani passano per i festival di musica giovanile e per le Olimpiadi di Montreal del ’76, per l’esplosione del punk e per i Mondiali dell’82. Nonché, i canali di contatto tra Tommy e Blu – spesso costretti a separarsi – fungono da lente per una piccola storia della tecnologia comunicativa, dal gettone telefonico al cellulare, dalla carta e dalle cartoline al computer e alle e-mail.

Il libro, sebbene possa risultare dolciastro ad una mente fredda e calcolante, riesce a toccare e far vibrare lesprit de finesse del lettore. La caratterizzazione dei suoi protagonisti, allo stesso tempo ragazzi in carne ed ossa e tipi umani universali, costringe a immedesimarsi nelle vite dei due personaggi principali, a commuoversi e talvolta inquietarsi rivivendone i vissuti.

Il romanzo, consigliato ai giovanissimi, così come ai lettori più adulti (esso si apre, infatti, con un bilancio «nel mezzo del cammin di nostra vita») svolge, in ultima analisi, un’importante operazione pedagogico-culturale raccogliendo e proponendo alcune tra le migliori canzoni e calci in rete del secondo Novecento.

Pasquale de Blasio

“Otto, l’abisso di Castel del Monte” di Alfredo De Giovanni

“Il mistero dà fuoco e tensione ad ogni nostra parola”. Questo ci dice Thomas Mann, che del mistero della scrittura avrebbe ancora molto da raccontarci. È da questa affermazione che voglio partire per riflettere sul libro Otto, l’abisso di Castel del Monte di Alfredo De Giovanni riedito da Gelsorosso (pp. 312, euro 16), con tavole illustrate da Fabio Baldoini e Francesca Zamborlini.

Un romanzo unico, che fa di Castel del Monte un luogo non solo magico, come potrebbe apparire ai nostri animi romantici, ma anche misterioso, da scoprire con mezzi e strumenti scientifici di ultima generazione. Secondo Einstein, quella del mistero è la migliore esperienza che possiamo avere… culla della vera arte e della vera scienza.

Così le vite di quattro giovani si incrociano mirabilmente in avventure e disavventure in una notte in cui, mentre l’Italia sportiva si gioca a calci e rigori la sua dignità nazionale, loro invece mettono in pericolo le loro esistenze per amore della conoscenza, per scoprire qualcosa che sono convinti sia celato nel sottosuolo del castello, svelare l’arcano sepolto dal silenzio del tempo. Tre geologi e un’archeologa violano le vetuste mura per intraprendere un viaggio che cambierà completamente la loro vita.

Otto non è solo un libro di avventura o thriller, è anche un romanzo di formazione, perché le vicende che si susseguiranno nel corso del romanzo li segneranno tutti, rendendoli consapevoli fino in fondo delle loro scelte di vita. Il tema della conoscenza e della scoperta di un altro modo di interpretare la realtà li conduce in luoghi sconosciuti, per molti, del nostro territorio: le cave di bauxite, le grotte carsiche disseminate dappertutto nella regione, il castello di Barletta, i suoi sotterranei segreti, tutto ciò li spingerà ad una comprensione più attenta di sé, a interrogarsi spesso sulle leggi che governano il mondo. Non è solo la ricerca di un tesoro nascosto, è la ricerca del proprio io. Gli interrogativi sono numerosi e spesso sono noti. A partire da tutto l’alone di mistero che circonda il castello, del quale, fino ad oggi, sono state rese note numerosissime interpretazioni e leggende, e sarebbero tante da elencare, da quelle legate alla numerologia a tutte le ipotesi scientifiche e storiche possibili.

Ma ripeto, il romanzo non è solo la rocambolesca avventura di un gruppo di giovani che si sposta dalle mura del castello alle campagne circostanti per arrivare a Parigi, Chartres, Trani o Barletta, è un continuo scavare nell’ignoto, come la speleologia… per ritrovare il ventre di una madre, con la speranza di ritornare alla luce…

Anche questo romanzo è come la speleologia, ci si immerge in un racconto fiume che ti travolge, ti sconvolge, fluido e scorrevole nelle scrittura come un torrente in piena.

Il lettore seguirà questo percorso avventuroso con l’ansia di rinvenire anch’egli la luce dopo le tenebre in cui spesso si resta prigionieri. Sarà la poesia delle pietre, che serbano stretti i loro segreti ancestrali a riportare ognuno nella giusta direzione, verso la diritta via… ma solo perché hanno seguito virtute e conoscenza.

 Amalia Mancini

“Quante bugie hai detto questa sera” di Alessio Di Girolamo

Quante bugie hai detto questa sera (TerraRossa Edizioni, pp. 186, euro 15) è il romanzo di esordio di Alessio Di Girolamo: un esordio potente e molto audace, perfettamente riuscito dal punto di vista stilistico e dello sviluppo narrativo, e anche per il tracciato intimo emotivo del racconto.

L’incipit è fortemente significativo e fornisce la chiave multipla di lettura di tutto il romanzo. Un’opera come un cerchio aperto, un racconto che riunisce in sé più livelli di realtà, più punti di accesso, e permette al lettore un’azione che solo pochi scrittori sono in grado di fare: rientrare nel testo, rileggerlo con una nuova linea interpretativa.

In apertura siamo catapultati senza alcuna introduzione nella riflessione di una donna di cui non sappiamo l’età, ricorda che quando era bambina si guardava a lungo le mani ed esprimeva un desiderio. Si guardava a lungo le mani, in tutti i loro dettagli, fino a quando aveva la certezza assoluta che fossero proprio le sue mani. Basterebbero questi primi due dettagli per farci capire che Anna, la protagonista, è una donna che parla da adulta ma cade a tratti in un linguaggio ancora da bambina, un essere umano che si guarda le mani e ha bisogno di tempo per riconoscersi individuo. Un essere umano che solo dopo essersi riappropriato del proprio io può aprire gli occhi e guardare il mondo, sentirlo e viverlo, ma soprattutto può “perdonare tutti. Senza alcuna eccezione”.

Improvvisamente poi in questo primo capitolo troviamo un cambio di ritmo: un dialogo a due voci dentro un singolo corpo, un corpo disabitato che si chiama Anna ma che ora non ha più un nome. Anna si chiede spiegazioni, chiede la verità, suggerisce alle corde vocali di esplodere in un urlo, esamina le parti del corpo che riesce a sentire e quelle che non riesce a muovere. Pare sia vittima di un abuso, di una violenza feroce e totale. E da questo dialogo a due voci che si fonde in una sola compare una risposta al dolore insolita: “vorrei tanto toccarmi… mi ha sempre aiutato (…) Ho bisogno di toccarmi per non piangere: di toccarmi per rallentare il battito… Calma!”. Nel dolore più estremo dove ci dice di trovarsi Anna pensa che ha bisogno di toccarsi nelle parti intime, parti che sente ferite e lacerate. Rispondere al dolore con una forma di piacere frenetica e privata è una cosa insolita, è una cosa che non si dice.

Alessio Di Girolamo ha la straordinaria capacità di mimetizzarsi a livello immaginativo e descrittivo nella parte più intima di una donna. Una esattezza e una precisione che forse le donne stesse si negherebbero per pudore. La scoperta del proprio corpo per le donne è un atto difficile e segreto, spesso avviene anche diversi anni dopo il primo rapporto sessuale. La vagina è un organo che si svolge all’interno, è di per sé un organo rinchiuso e con un accesso spesso doloroso. Il piacere sessuale la donna lo scopre da bambina ma le viene subito proibito come qualcosa di pericoloso, come qualcosa di sporco, deve essere taciuto. Le prime stimolazioni sono un patto segreto tra quella cosa che le piace tanto sfregare e il suo prezioso silenzio. Per Anna inizia sull’autobus di scuola, uno sfregare lieve e poi forte per le frenate improvvise. Non sa cosa sia, sa che è meglio non farne parola, si accorda al movimento del bus e ogni giorno è una certezza, un rinnovo di quella promessa segreta.

Di Girolamo ci mostra come un autore sia capace di mimetizzarsi nel corpo e nelle emozioni più intime e fisiche di una donna. Per me è stata una conferma: ho sempre pensato che gli artisti, se tali sono davvero, abbiano la possibilità di entrare in tutte le sfere dell’umano, donna o maschio che sia, farle proprie, rubarne il corpo e i pensieri. Lui in questo esordio lo fa, con naturalezza, portando il lettore in quel mondo magmatico e liquido che è la sessualità femminile. Un libro, questo, che ripercorre tutte le tappe della scoperta del piacere, dall’autoerotismo più privato e taciuto fino a rapporti sessuali più estremi e quasi esibiti. La storia personale di Anna si svolge partendo dai segreti, a ogni passaggio di “grado sessuale” anche la storia famigliare si apre: nitida e quasi statuaria la figura della nonna, mutevole e sfuggente la figura della madre che si trasforma nella narrazione fino a diventare competitiva, una figura ridotta a pochi e vaghi contorni quella del padre. Si intuisce che il trauma stia lì, in quello che non si conosce, nell’unica figura disegnata enorme sui fogli bianchi della scuola elementare, un papà gigante nel ricordo di una bambina.

Ad Anna si crede, si crede ciecamente per tutto il libro. Anna è brava a farci stare dalla sua parte anche quando non approviamo per decenza o per pudore o per vergogna quello che fa. Ma capiamo la sua ricerca di amore, capiamo che dal corpo di un uomo sta cercando amore, una parola sentita solo una volta da un bambina. Anna pensa che dal piacere suo e altrui si possa riscattare la pace di un sentimento. Il lettore è portato istintivamente a stare dalla parte di una vittima che è abusata e abusa a sua volta, è il cerchio nero della violenza, da vittima a carnefice il passo è breve. Il titolo però ci ricorda una cosa Quante bugie hai detto questa sera è un monito continuo, dice al lettore di stare attento. E infatti lungo tutto il romanzo sono disseminati degli indizi: Anna di sicuro ha perso l’innocenza, avrà perso anche la verità? E l’inizio del libro torna, torna continuamente il momento in cui Anna si guarda le mani, osserva che le linee siano tutte al posto giusto. Possiamo quindi fidarci di un narratore che si guarda le mani per riconoscersi? Quante bugie ci ha detto Anna questa sera?

Anna può essere tante persone, può essere la bambina che scopre il piacere, la giovane donna precoce, la vittima di una o più violenze e infine una persona disturbata e alterata fermata con cinghie strette in un ospedale. Non sappiamo quante Anna stiano dentro a una sola, ma in questo libro abbiamo la possibilità di abitarle tutte quasi contemporaneamente.

Clery Celeste