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Aleph: “Uomini e no” di Silvana Farina
Siria, Homs, marzo 2012
C’è un silenzio assurdo qui. Fa freddo in questa buia cantina, il forte odore del vino ha riempito le mie narici, i polmoni e il cervello. Sono ubriaco di immagini spaventose. Non mi muovo, resto fermo in quest’angolino vicino ai cesti della verdura e alle galline morte nelle loro gabbie puzzolenti. Sarà forse l’alba, piccoli raggi di luce bianca come lame taglienti iniziano a penetrare dalla piccola finestra sulla parete in tufo. Il mio respiro è lento ma non ho più paura, non provo più niente, dopo ieri sera mi sento come svuotato. “Dio se ci sei guardami!”: le urla di mia madre squarciano il flusso dei miei pensieri. Ho fame, ho sonno, ho un dolore lancinante al braccio. “Dio se ci sei guardami”. Allungo le mani sporche per stropicciarmi gli occhi ma non riesco a piangere. Sotto le mie unghie strati di terra e sangue. “Dio se ci sei guardami”. Mamma sono Amir, mi senti? Sono riuscito a nascondermi, un signore mi ha condotto nella cantina di un capannone in periferia, ma dicono che ci raggiungeranno. Correvo come un pazzo per le strade di Adawiy, i soldati ci inseguivano ed io sono inciampato sul marciapiede, papà si è fermato di scatto, ha attraversato la strada per venire ad aiutarmi ed è stato colpito da un proiettile. Ho visto il suo volto atterrito, il sangue che usciva dalle sue labbra, le mani tese verso di me, ho sentito anche le sue ultime parole: “Scappa Amir”. Il mio cuore batteva all’impazzata, le gambe tremavano, correvo tra decine di corpi accatastati a terra, pieni di bruciature, crani spaccati, corpi sgozzati e mutilati da gruppi di terroristi. Ho imboccato la strada di casa, non sapevo dove andare. E ho intravisto una donna stesa per terra che implorava Dio. Era mia madre, tutta piena di sangue, vicino al corpo dilaniato del mio fratellino Omar. I predatori erano passati anche di lì. Mamma, mi senti? La fissavo negli occhi ma lei era assente, sembrava non riconoscermi. Un signore mi acciuffò per la giacca e mi trascinò via come un peso morto. La luce è entrata nella cantina, riconosco tutti i volti delle persone che come me credono di essere state portate in salvo. “Siete solo carne da macello!”: entrano gli ufficiali militari ridendo e imprecando contro di noi. Guardo i miei pantaloni, sono bagnati: ci ha venduti ai soldati. Quanto lo avranno pagato? Vorrei sapere almeno quanti soldi valgo. Mi giro al muro per essere giustiziato, prego Dio che mi porti in paradiso con la mia famiglia, spero se mai dovesse esserci una seconda vita, una reincarnazione, di non nascere mai più uomo.
Silvana Farina iscritta alla facoltà di Lettere presso l’Università di Bari, scrive recensioni di dischi per Youthless Fanzine, ha collaborato con Linkredulo, e scrive sul Blog di «Repubblica Bari». Inoltre, spera che i telegiornali parlino del massacro che sta avvenendo in Siria.
Aleph: “Uomini e no” di Oscar Pizzulli
Avvenne dopo il pranzo in onore di Rowena, eletta regina, non dei sassoni stavolta, bensì del Comune Comprensorio. Nell’Istituto, un palazzaccio a due piani dall’intonaco sbiadito, vi erano, a quel tempo, trenta ospiti e qualche sparuta apparizione. Vi alloggiavano usurati mestieranti e scapoli e zitelle non più nel fior degli anni. Pur, talvolta, vi sareste potuti imbattere in pensionati tiratardi o studenti di passaggio. Chiunque avesse voglia di prendere congedo dalla propria identità, in quel posto era libero di farlo. E, cosa ancor più straordinaria, si poteva fare ciò prendendo in prestito la vita di un qualsiasi personaggio della storia o del cinema. Ma adesso ritorniamo ai nostri fatti.
Quel pomeriggio, dopo l’ultima portata, era piombato sugli astanti quel velo di stanchezza ed acquiescenza che abbraccia e stringe a sé chi ha ben gustato ogni dono della tavola. Parecchi s’erano assopiti, eccetto un duo di ombre parlottanti, dietro le tende di stoffa della sala. Riconoscibili senza alcuna forma o incedere di indugio questi erano il vecchio MacMahon e la piccola, si fa per dire visto che aveva quarant’anni, Shirley Temple. Chiunque in quel salone, se non fosse stato sbronzo o a testa in su, vi avrebbe saputo enumerare i molteplici amorosi tentativi andati a vuoto, del vecchio generale ai ricci gialli del prodigio Hollywoodiano. Ma in quell’assolato pomeriggio di giugno ormai inoltrato, il baffuto MacMahon sembrava veramente risoluto a far del suo vocione uno strumento celestiale. Così, com’ella si fu alzata, diretta verso l’uscita che dava sul cortile retrostante, egli prese a seguirla col cuore che pompava sangue a ritmo forsennato. E mentre procedevano, allontanandosi sempre più dalle note palazzine, la graziosa Shirley, agghindata in un abito azzurrino che s’andava allargando ad altezza di ginocchia, di tanto in tanto volgeva indietro sguardi per assicurarsi che il suo amante non l’avesse abbandonata. Così senza rendersene conto, usciti fuori dal confine cittadino, si ritrovarono, ambedue, sorpresi ed estasiati, ad ammirare una fonte sconosciuta che emanava il più intenso, tra gli odori immaginati. Intorno fiori, nonché erbe selvatiche delle più svariate specie, adornavano una bassa staccionata che sembrava sbucar fuori dai paesaggi campestri della Francia provenzale e sulla quale, ai due uomini ormai persi, parve fossero scritte le parole: “ERAVATE UOMINI ED ORA AHIMÈ NON PIÙ”.
Ma i due esiliati non eran giunti soli in quel luogo sperduto e inesplorato, poiché senza far rumore, un bel tipo lungo lungo, dentro una camicia a quadri ancor più lunga, li aveva seguiti pian pianino sin dai giochi delle tende. Costui era il druido del paese ed egli pure affollava, nei giorni di bel tempo, gli ampi spazi all’Istituto. Fu lui, per quello che si dice, a veder l’ultima volta MacMahon e Shirley con fattezze ancora umane, prima che, avvolti da una nube, venissero scambiati con due fiori dalle forme e dalle sottili foglie strane. E con quanto amor fraterno, quel druido dai galli discendente, col falcetto stretto in mano, recisi i fiori alla radice, decise di portarseli con sé. Così giunto all’Istituto prese un vaso e, nella prima stanza che incontrò, lì pose il vaso, dopodiché come ogni sera, corse a far le serenate alla mesta dea che l’attendeva.
Il giorno dopo a nessuno lì presente sfuggì la scena e la commedia divertente di Francisco Franco alle prese con le strambe allegorie del triste arredo. Ogni cosa s’era scambiata il proprio posto ed era poi comparso un nuovo vaso con due fiori che spuntavano con un’aria un po’ indiscreta. Ma questo era solo un lieve scherzo di due amici che, dismessa qualsiasi forma vegetale, si eran presi una rivincita contro i fatti della storia e gli sberleffi della vita, impartendo una lezione a colui che, per finzione, aveva scelto d’essere un feroce e un persecutore spietato di poeti.
Sono uno studente di fisica dell’Università di Bari. Al momento vivo a Bari per motivi di studio ma sono di Ginosa, paese della provincia di Taranto. Mi piace scrivere (ho collaborato saltuariamente con testate giornalistiche locali) e per anni ho studiato musica, attività purtroppo interrotta, che un giorno spero di poter riprendere.
Aleph: “Uomini e no” di Dirce Scarpello
LUciano (Hai messo occhiali e cuffietta?), Paolo (Hai limato le unghione?) e Ottavio (Faccio io il cattivo. Dalla nonna deve andare). Basta poco.
Passano tutti e tre sul motorino che sbanda, con le membra ciondolanti che andrebbero frenate, fermate. Vanno, sempre dondolando sulla strada sterrata che porta al casolare, mentre la nuvola di polvere non li fa desistere. Non hanno bisogno di aspettarla sul sentiero, di convincerla a non andare dalla nonna. È bastato farlo qualche tempo fa. Ora lei c’è dentro, che lo voglia, che lo capisca o no. E loro sono dentro di lei. Zitta, piccola puttana.
Si travestono da amici, da compagni e poi ognuno di loro diventa una parte dell’orrida belva pelosa che fa paura ai bambini, ogni parte pensa che non ha colpa, che le altre parti non oseranno tanto…
– Vado dalla nonna!
– Ce l’hai il telefonino?
– Sì. Ma’ stai tranquilla.
‘CAra mamma, Potrei dirti, PUrtroppo CCE l’ho il Telefonino.. TOh! bRutti strOnzi mi meSSaggiano pure. Oggi alle quattro. Ci vado, ke si credono? Ke mi mettono paura? Più di quello ke hanno fatto su di me non si può fare! Ma io metto su un casino ke faccio scoppiare il paese! E pensare che mi ero innamorata di Luciano… Ma quello senza quei due bastardi non fa niente. Ke se non mi ero innamorata succedeva niente’.
– Venite fuori, pezzi di merda. – Dove trova il coraggio di parlare così?
Il vespino è arroventato sotto il sole. Loro sono qui da ore a non far niente. Fanno sega a scuola un giorno sì e uno no, i genitori rompono quando possono, ma c’hanno da lavorare. Per pagare la miscela al loro motorino e anche lo sballo, anche se non lo sanno. O fanno finta.
– Fa caldo. Entra tu. (Tira il saliscendi e la porta si aprirà).
LUciano, Paolo, Ottavio stanno carichi sopra il vecchio materasso. Ragazzi, quasi uomini d’ormoni. Uomini sì e no. O no.
Un telefonino lancia un tormentone, cominciano a muoversi tutti e tre come orsi, nel frattempo è entrata. Le sono intorno, la cominciano a toccare, se la spingono l’uno verso l’altro come gatti col topo.
– Stronzi! Sempre ad una cosa pensate!
CArla si fa Più piccola che PUò.
– C… C’È una cosa che devo… dirvi.
Il segreto tenuto nel cuore, è un cuore arrabbiato. TuTTO comincia a girare nelle loro teste.
-Vi faRO’ paSSare i guai… O mi aiutate…
È un attimo. Il corpo peloso della belva comanda alle membra che ubbidiscono. Non è davvero il lupo che fa paura ma l’uomo travestito da lupo. Carla è in sua balìa, forse attende l’ennesimo possesso, violento, di ingenua perversione…
Non c’è più. Un pozzo.
47 anni, passione tardiva la scrittura, emanazione diretta di quella per la lettura in una normale vita di madre, moglie e lavoratrice. Diversi racconti e poesie pubblicati in varie antologie, soprattutto PerroneLAB. Qualche premio in concorsi letterari, più di recente un terzo premio al concorso Nero di Puglia. All’attivo anche un primo romanzo, Angulus ridet, edito PerroneLAB.
Aleph: “Uomini e no” di Federica Petruzzellis
I suoi occhi sono posati sul bicchiere che ha davanti.
Ne osserva la forma, il materiale, la consistenza e perfino il contenuto.
Sembra quasi che si sia scordata cosa ci sia lì dentro.
Sembra quasi che si sia scordata cosa ci faccia lì.
Il suo indice accarezza lentamente il bordo di quel frammento di vetro.
Al tocco ne proviene un suono, un sibilo, quasi impercettibile.
Intorno a lei, niente e nessuno.
O forse sì, ma non se ne accorge.
Il suo unico obiettivo, ora, è quel dannato liquore.
Le sue mani si impossessano avidamente del calice.
Le nocche le diventano quasi bianche per lo sforzo.
Le braccia si muovono lentamente.
Fanno fatica a sollevare il bicchiere, pesante quanto un masso.
Poi, le labbra vermiglie finalmente si ricongiungono al veleno.
Scorre giù, nella gola infernale.
Brucia, ma non importa.
Non si fermerà finché non sentirà più niente.
Odio.
Rancore.
Rabbia.
Delusione.
Niente.
Un altro bicchiere.
Le palpebre pesanti, la vista annebbiata.
Caron dimonio, con occhi di bragia.
Le guance rosse, il corpo accaldato.
La testa greve, ancora troppi pensieri.
Un altro goccio e poi un altro ancora.
Un automa, ecco cos’è diventata.
Non vede e non ascolta nessuno. Solo lei, quei bicchieri e quelle voci.
Rimbombano nella sua mente. La tormentano, non la lasciano in pace.
Socchiude gli occhi mentre le sue dita scorrono sui capelli, portandoli all’indietro.
Un braccio piegato, la mano le sorregge il capo.
Un arto inerme sul tavolo, l’indice sfiora il calice.
Uomini. Uomini e i loro no.
Volta lo sguardo verso la finestra, lì, vicino a lei.
Buio, immensamente buio.
Sembra che faccia freddo, fuori.
La lanterna del lampione in fondo alla strada intrattiene una danza sensuale con il vento.
A momenti si sente anche il dolce tamburellare delle gocce d’acqua che si posano per terra.
Nessuno che cammina, nessuno che si agita. Ma cosa si aspetta? In fondo piove.
E quando piove, il mondo si ferma.
Paura insanabile della pioggia, sì.
Perché tutti, alla fine, hanno paura di bagnarsi.
E se hanno paura di bagnarsi, è perché hanno paura di rivelarsi.
Portano tutti quell’immancabile maschera sul volto.
E l’acqua può scioglierla.
Anche lui ha timore. Con lei, potrebbe essere considerato un ribelle.
E non si può evitare di ricadere negli stupidi schemi che società impone, vero?
Federica Petruzzellis è una liceale, amante dell’arte e della cultura. Nel tempo libero adora leggere e scrivere, cercando un mondo migliore, diverso da quello in cui è costretta a vivere.
Aleph: “Uomini e no” di Franco Caprio
Quattro plafoniere, tecnologiche altalene sospese a metà altezza tra pavimento e soffitto, illuminano perennemente l’ufficio con la luce bianca e diffusa di altrettanti neon. Tubi fluorescenti che non lesinano mai il loro potere di annullare ogni ombra, di appiattire ogni forma e persino di sopprimere la luce calda del sole. Nell’ampia stanza, un rettangolo con porta e finestra sui lati corti e due file di tre scrivanie che si fronteggiano sui lati lunghi, solo due postazioni di lavoro sono occupate, quelle centrali. Sulle altre troneggiano vecchi monitor a tubo catodico perennemente in stand-by, pile di pratiche avvolte in ingialliti gusci di carta, testimonianza della lunga permanenza su quegli altari della accidia, e briciole di cracker alla deriva nella polvere.
– Allora, che hai deciso?
– In che senso?
– Come in che senso? Lo sai benissimo! Ti vuoi aggregare a noi oppure no?
– Ancora? Sarà la decima volte che mi fate la stessa domanda! Se avessi voluto lo avrei già fatto!
– Ehi, scusa tanto! Ma se non sbaglio questa sarà al massimo la seconda volta che te lo chiedo. Giusto?
– Va bene! Ma tieni presente che due volte tu, due volte l’altro, due volte l’altro ancora e via di seguito, alla fine diventa una vera e propria rottura di coglioni!
– Guarda che se te lo ripetiamo è anche per il tuo bene: lo sai quanto tempo libero in più avresti se non fossi così cacasotto? E tutti potremmo venire qui solo un giorno a settimana.
– Non è questione di essere cacasotto, è questione di coscienza e a me non va di rubare lo stipendio mentre me ne sto a casa e qualche collega timbra per me.
– Calma! Qui non ruba niente a nessuno. Si tratta solo di non fare i fessi della situazione!
– Scusa ma secondo te cercare di comportarsi onestamente vuol dire essere fessi?
– Sai che diceva Franco Nero in… quel film sulla mafia? Porca puttana non ricordo il nome! Vabbe’ diceva che esistono tre categorie: gli uomini, i mezzi uomini e i quacquaracquà!
– Il film è Il Giorno Della Civetta e non era Franco Nero ma Don Mariano Arena, cioè Lee J. Cobb, che divideva l’umanità in cinque categorie: gli uomini veri, i mezzi uomini, gli ominicchi, i ruffiani e infine i quacquaracquà.
– Ehi! O Franco Nero o Don come cazzo si chiama alla fine sempre quacquaracquà rimani!
– Lo sai cosa mi rode? È che quando non avevate un lavoro fisso avete pianto miseria al politico di turno e dopo che siete stati raccomandati per un posto vi è passata improvvisamente la voglia di lavorare.
– Perché, con tutta la corruzione e il magna-magna che c’è, a me personalmente non va proprio di essere l’unico a prenderla in quel posto!
– Guarda che siamo noi a scegliere i magna-magna che ci governano.
– Davvero? E me lo trovi tu un amministratore onesto e capace?
– Il nostro nuovo direttore, per esempio, mi sembra una persona corretta.
– È solo “fruscio di scopa nuova”! Fai passare ancora qualche mese e vedrai che bella fine farà il tuo direttore! – aggiunge con un sorriso strafottente.
Un cigolare di cardini interrompe la conversazione e sull’uscio si affaccia Michele, il messo, busta commerciale in una mano e cartellina e penna nell’altra.
– Giandomenico De Trizio? Una firma qua – dice alzando la mano sinistra con la cartellina – E questa é tua – aggiunge sventolando la mano destra con la busta.
Giandomenico, “uomo vero”, afferra la busta e firma la ricevuta. I due pollici e i rispettivi indici afferrano a pinza il bordo della busta e, allontanandosi una mano dall’altra, ne lacerano il lembo. Estrae il foglio e lo legge. Poche righe.
Un sipario di bianco pallore cala sul suo volto. L’arco del sorriso si drizza per poi incurvarsi in basso. Un ventaglio di rughe compare tra le folte sopracciglia.
– Che è successo, Giandome’?
– Senti qua: Le si comunica la Sua sospensione immediata dal servizio e dalla retribuzione configurandosi i presupposti per il Suo licenziamento!
Il fruscio di scopa nuova sta dunque diventando musica. Una musica nuova, diversa. E domani forse uno straccio finalmente raccatterà quelle povere briciole di cracker che da settimane annaspano nell’oceano di polvere.
Franco Caprio, medico, nato a Torino e residente a Conversano (BA) ha pubblicato, insieme ad Antonella Caprio, il romanzo d’esordio Il Segreto del Gelso Bianco, Besa Editrice (“Oscar PugliaLibre” quale miglior romanzo edito in Puglia nel 2010; Vincitore Premio Letterario LibriaMola 2010 – 1° classificato; Vincitore Premio Letterario Via Po-Torino 2010 – 2° classificato).
Aleph: “Uomini e no” di Giulia Basile
I tre volti guardavano fiduciosi da una vecchia fotografia. Li aveva adottati a distanza, tutti e tre insieme, e da lontano aveva seguito il loro cammino; ma a uno erano ora rivolti i suoi pensieri, a Kokou, perché non era più lo stesso.
Gli anni erano passati in fretta in quel piccolo villaggio sperduto, Kuma, a 150 km da Lomé, e ognuno di quei ragazzi aveva spinto la propria vela verso un diverso destino. Il maggiore dei tre stava terminando l’Università di Lomé, il più piccolo era rimasto con le suore della casa-famiglia a far loro da autista; il terzo, Kokou, era sempre in giro di qua e di là, in lotta con il mondo, appassionato e generoso, con il sangue che ribolliva quando stava in compagnia delle ragazze. Amava tanto le loro risa e i loro canti, ma era alla bella Akuvi che pensava il suo cuore.
Una domenica Akuvi gli dette appuntamento all’uscita dalla funzione liturgica, in cui si erano guardati complici, con buffe smorfie di ironia, quando il sacerdote si era messo a raccontare di Rachele, che aveva avuto un figlio a ottant’anni da un uomo che ne aveva quasi cento. L’appuntamento era per il giorno dopo alle fontane: le chiamavano così le cascate di Kpimè, che il fiume faceva con un salto di 30 metri dal bosco superiore.
Percorsero la lunga strada saltellando come due ragazzini, felici di ridere e spintonarsi. Riempita d’acqua freschissima la giara da riportare al villaggio, si misero a giocare con l’acqua come in un rituale d’amore; poi si tolsero i vestiti per farli asciugare appesi ai rami di un baobab e finalmente si tuffarono per ristorarsi dall’arsura, come avevano sempre fatto, da quando erano bambini.
Ebbe lo stesso desiderio il commerciante di cocco e manghi, che raccoglieva da quella zona una camionata di frutta ogni lunedì per portarla ai mercati. Era un bianco sempre pieno di dollari e pronto a far baldoria. Quando si accorse della ragazza e dei vestiti, li chiamò con dolcezza – li conosceva entrambi. L’uomo camminava, sorrideva e giocherellava con un cocco tra le mani, ma con un gesto inaspettato e imprevedibile, appena l’ebbe sotto tiro, assestò un colpo alla nuca del ragazzo e con crudeltà si impossessò di lei.
Gli aveva scritto spesso in quegli anni, ma Kokou non le aveva mai risposto e, da quanto le riferivano i fratelli, era diventato violento e solitario; viveva sempre ai margini del suo villaggio da quando era uscito dal carcere, condannato per omicidio, nonostante molti si fossero schierati dalla sua parte e lo avessero ritenuto innocente. Infatti erano in tanti a conoscere la durezza e la cupidigia di Corentin e ad aver intuito come fossero andate le cose.
Ma era andata anche peggio alla bella Akuvi, che quel giorno lontano aveva perso la sua verginità e il suo amore per gli uomini. Buoni o cattivi, bianchi o neri.