Category Archives: LaPugliaCheRacconta
Aleph: “Uomini e no” di Ilaria Lopez
Scarpe gettate sul pavimento. Una sottoveste rossa fascia il pavimento di legno scuro come un beffardo tappeto rosso. Un red carpet che la fa sentire l’ospite d’onore a quella crudele e ridicola cerimonia. Solo che al posto delle acclamazioni, in sottofondo, qualcuno geme.
Tacca, tacca, tacca.
Umiliata. Offesa. Un’idiota. Nella migliore tradizione dostoevskiana.
Tacca, tacca, tacca.
La lettiera del gatto da cambiare il lavoro da consegnare cristo non ce la farò mai la casa da tenere in ordine e il bucato da fare e ritirare attenta a non stenderlo proprio quando le previsioni in tv dicono che il cielo minaccia pioggia e poi bisogna aggiustare lo smalto sbeccato ché uscire così pare brutto mia madre mi guarderebbe sicuramente con un sopracciglio inarcato in segno di disapprovazione e il pranzo da preparare la cena la colazione l’assicurazione da pagare le bollette la posta da ritirare le
Tacca.
Cenere. Danza leggera, dopo l’eruzione del vulcano. Come un tuffatore a volo d’angelo dal trampolino, la cenere si posa. Elegante, perfetta, grigio marmo. Bugiarda, tenera, leggera. Fragile.
Tacca, tacca, tacca.
Dietro quella lingua putrescente srotolata sul pavimento, seguono altri vestiti, come i rimasugli di un pranzo succulento che tornano in superficie impastati di bile. La sua stessa casa le fa le boccacce. Sono le smorfie di un mostro cattivo che ha vomitato sul pavimento i resti del pranzo con cui si è ingozzato. A gemere sono in due, ora. Solo che in mezzo a quegli scarti c’è anche lei, sputata fuori, prigioniera di un bolo digerito a metà.
Tacca, tacca, tacca.
Come le tre scimmiette: non vede. Non sente. Non parla. Soprattutto, non parla.
Tacca, tacca, tacca.
La routine ti morde ti mastica ti mangia ti divora ti digerisce ti espelle come una tossina e non salva neanche ciò che di buono c’è in te
Tacca.
Nessun rumore sotto la cenere, ora. La coltre è spessa, grigia come l’asfalto consumato. Le ha intasato orecchie, bocca, naso, occhi.
Tacca, tacca, tacca.
Niente più ambigue frattaglie di seta sparse sul pavimento, ora. Niente gemiti. La casa ronza nel suo silenzio, come una cavalletta nervosa. La cenere al suo posto. Il viso rilassato, nessuna emozione a trapassare i pori della sua pelle come lame. Ma le tacche, le tacche sono tutte lì. Incise su tutto il suo corpo, color rubino. A ricordarle, in un rivolo color porpora, quanto abbia paura del dolore. Ciò che ci rende uomini e no.
I guess you are afraid of what everyone is made of…
Ilaria Lopez è studentessa presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Bari. Ha partecipato a diversi concorsi letterari, grazie ai quali sono stati pubblicati alcuni suoi racconti.
Aleph: da venerdì il prossimo tema “Uomini e no”
Dopo il successo dei racconti dal titolo “Il mestiere di vivere”, primo ciclo di Aleph: La Puglia Che Racconta, la rubrica settimanale del venerdì di «PugliaLibre» in cui ospitiamo le brevi prove narrative di scrittori pugliesi, dalla prossima settimana alla fine di maggio si riparte con le stesse regole ma un nuovo tema.
Come per i mesi appena trascorsi, infatti, l’unico requisito richiesto ai vostri racconti sarà il titolo, scelto dalla redazione di «PugliaLibre» tra i più importanti libri della letteratura italiana. Per i prossimi tre mesi, ospiteremo racconti che abbiano come titolo “Uomini e no“, come il celebre romanzo di Elio Vittorini.
I racconti dovranno essere inviati in formato word all’indirizzo e-mail info@puglialibre.it insieme ad un’immagine (un dipinto, una fotografia, un disegno), non dovranno superare la lunghezza di 2500 battute (spazi inclusi) e i migliori verranno pubblicati ogni venerdì su www.puglialibre.it. Ogni testo dovrà essere accompagnato da una brevissima nota biografica dell’autore che verrà pubblicata insieme al racconto.
Aleph: “Il mestiere di vivere” di Antonella Caprio
Beata te che sei giovane! Alla tua età sì che puoi divertirti!
Dicono tutti così i grandi, perché pensano che a quindici anni non puoi conoscere il dolore. A quindici anni sei una persona appena abbozzata: priva di sentimenti assoluti, di emozioni travolgenti. Pensano che sei solo puro istinto e risate sguaiate, e attività cerebrale zero. Che ne sanno loro di quanto puoi soffrire? Di quanto struggimento può contenere il tuo corpo? Nulla. Pensano che a quindici anni non puoi patire per amore, che l’amore è priorità del mondo degli adulti. Che alla tua età i fidanzatini vanno e vengono come i brufoli sulla fronte, senza lasciare traccia. E non sono nemmeno capaci di guardarti in faccia. Non si accorgono di niente… niente, i grandi. Loro che capiscono sempre tutto.
Solo tu sai quanto male fa non sentire più il telefonino squillare per leggere i suoi messaggi. Non sentire più d’inverno le sue mani calde sulle tue guance fredde. I suoi baci sulla tua bocca avida. Solo tu sai cosa si prova nel sentirsi abbandonati senza il conforto di una parola, di una spiegazione. Che so… Ti ho voluto bene ma ora è tutto finito, oppure… Sei la persona più cara al mondo ma io non ti merito, o… Dopo tutto quello che c’è stato fra noi, rimaniamo almeno buoni amici. Insomma frasi di questo genere che ti aiutano ad entrare nell’ordine di idee che il rapporto con lui cambierà direzione. Invece lui è fuggito via senza alcun preavviso, con passi felpati. Ti ha lasciata in silenzio. Un silenzio assordante dentro il quale senti solo urlare il suo nome. Tutto il giorno. Ogni ora. Ogni istante. Il suo nome ti rimbomba nella testa fino a farla scoppiare, fino ad occuparla tutta da non farci entrare altri pensieri, altre idee. E allora ti chiudi nella tua stanza e passi il tempo a guardare ora il display del telefonino e ora la finestra con la speranza di vederlo tornare a cercarti in qualche modo. Fino a quando un giorno non lo vedi su facebook in una foto abbracciato ad un’altra. Chiami di corsa la tua amica e lei ti dice che è tutto vero, che ora lui sta con quella tipa della foto e che di te non ne vuole nemmeno sentir parlare, che tu per lui sei stata un peso. Un peso.
La neve sbatte contro la finestra, si frantuma in mille cristalli che graffiano il vetro con lacrime ruvide, le stesse che senti piangere dal tuo cuore. E vorresti essere fiocco di neve, soave e candido, per accarezzare il suo corpo con i tuoi schizzi di ghiaccio e con quegli spilli freddi, incorporei, incidere sul suo petto Ti amo. Solo così, perché lui senta quanto può essere lieve il tuo affetto, e quanto gelida la tua solitudine.
Alla porta della tua camera la mamma bussa, ti invita ad andare a tavola. Per lei è importante solo che mangi, che ti mantieni in forma. E non capisce che il cibo è un macigno che ti tiene attaccata alla terra, ti schiaccia, ti annienta, mentre tu vuoi essere fiocco di neve, piuma d’uccello, foglia d’autunno. E così comprendi qual è la tua missione: diventare leggera come ali di farfalla, impalpabile come il vento, e come il vento annullare il peso.
Il peso della vita.
Antonella Caprio, docente, è nata e risiede a Torino, ma ha trascorso la giovinezza in Puglia. Ha pubblicato, insieme al fratello Franco Caprio, il romanzo d’esordio Il Segreto del Gelso Bianco, Besa Editrice (“Oscar PugliaLibre” quale miglior romanzo edito in Puglia nel 2010; Vincitore Premio Letterario LibriaMola 2010 – 1° classificato; Vincitore Premio Letterario Via Po-Torino 2010 – 2° classificato).
Aleph: “Il mestiere di vivere” di Mariagrazia Veccaro
Forse è quel sentirsi dei sopravvissuti a rinnovare l’impressione che la giornata non è che uno scontro campale.
Raggiungere un bar, uno qualsiasi, a prima mattina, diciamo verso le 7, 7 e mezzo, e mai per fame no, sempre per quel desiderio che un tempo, è vero, fu bulimico, di dare un’altra chance al mondo, a me stessa nel mondo. I sopravvissuti come me li riconosco a naso, sanno di sale degli oceani dei loro silenzi, gli altri sono solo le grida scosciate e il chiacchiericcio ronzante del bagnasciuga sudato durante la stagione balneare.
Al bar lo scampato ad un disastro familiare, al crollo dell’impalcatura di un amore cedevole, quello fermo nella trincea di una sala d’aspetto cerca sempre di lavorare in sottrazione sulle frasi, desidera un caffè-macchiato-lungo ma dice solo “un caffè”, sceglierebbe un cornetto alla marmellata con le praline bianche ma pronuncia “..e un kraffen”, gli costa fatica chiedere un bicchiere d’acqua ed è per questo che si tiene la sete, il gesuita che con l’arsura crede di pagare la colpa della sua indolenza, poi si avvicina alla cassa, il gesto appesantito di aprire il portafoglio che è come un “quant’è?”. Lui conosce il peso degli eventi, può farne persino una stima ad occhio, ecco perché fa fatica ad usare più di due parole per volta, riconosce l’inutilità dell’abbellimento, riduce all’essenziale e, tastando il nocciolo dell’essenza nell’essenziale, non ha paura di morire come tutti quelli che come lui hanno già preso le misure degli addii e delle distanze.
Qual è la differenza tra la consapevolezza e l’essersi arresi?
C’è l’altro seduto sempre al tavolino all’angolo, quello più nascosto, lui che veniva schernito per come s’ingobbiva durante i compiti in classe, un arco appassionato, che ogni volta, ora, che sente suonare la porta d’entrata si posiziona a schiena dritta sulla sedia come un cervo che si scuote dall’ansia di poter essere di nuovo vittima, guarda dritto chi entra come punterebbe il bersaglio un cecchino, stacca un pezzetto di flauto al latte con decisione, strappa i lembi della pasta con un taglio dei denti netti, un po’ spaventato per questa rabbia che il tempo gli ha fatto crescere dentro, figlio maledetto di uno stupro ma che comunque lui è deciso a tenersi, una gestazione è un’ulteriore barriera tra se stessi e gli altri.
La ragazza bassa che al bar si finge un’artiste parigina e sogna un amore che la cerchi nel bistrot, “perché non aspettavo che te”. Ordina sempre un tè perché spera che lui la riconosca seguendo il filo dell’odore del gelsomino, poi improvvisa un balletto per ritrovare degli spiccioli in tasca, lascia come mancia un sorriso dolce, da dare a lui nel caso passasse la sera, inavvertitamente. Passano gli anni, diversi gli avventori, baristi, menù, il colore di una tovaglia, ma rimane lì, sgranando silenziosi versi imparati a memoria di abbracci sotto i portici e ciliegi che arrossiscono di poeti che si fecero bastare l’amore di una donna soltanto.
Nel bar che frequento, verso le 7, 7 e mezzo, non c’è mai nessuno. Allora immagino di occupare ogni tavolino con le diverse anime che sono.
E tutto quello che è andato perso e tutto quello che non è ancora perduto ha l’alito di caffè, è nel freddo pungente delle 7, nel tintinnio delle pance calde delle tazze.
Mariagrazia Veccaro, nata ad Alberobello, studentessa in Lettere, collabora con varie riviste e giornali.
Aleph: “Il mestiere di vivere” di Simona Leo
Anche queste feste sono volate via. Finalmente.
Chiamate, auguri, pranzi, cene, sorrisi, baci. Tutti riuniti in famiglia, o quasi tutti. Momenti di felicità, forse qualche tempo fa. Questi giorni, ormai, non fanno altro che farmi guardare intorno e cercare con lo sguardo l’unica persona che non c’è più, mio figlio. Cerco i suoi occhi, ma non li trovo. Provo ad ascoltare la sua voce. A volte ho la sensazione di sentirmi chiamare “mamma”, mi volto, ma lui non c’è.
“La vita va avanti, deve andare avanti” mi sento ripetere in continuazione, ma come? Fosse facile. Provo a leggere per distrarmi, ma neanche la letteratura riesce più a farmi evadere da questa realtà. No forse è un sogno, penso, “svegliati Carla, svegliati. È solo un brutto sogno. Marco è vivo!”, mi ripeto. Ecco che suona il campanello, non stavo sognando. Le solite visite. Certo non vogliono lasciarmi sola. Sento tirarmi le labbra in un timido sorriso di circostanza. Parole. Mi dicono che non sono più la stessa, che devo smettere di starmene chiusa nella sua stanza, che devo uscire, pensare a mio marito. Anche lui soffre, lo so. Finalmente mi parlano di Marco. Che bello quanto mi raccontano di come era buono con tutti, con le orecchie sempre disponibili all’ascolto, come riusciva a rallegrare chiunque, anche chi l’ha conosciuto solo durante una fila in posta. Eppure non si sono dimenticati di quello sconosciuto che per caso ha incrociato la loro esistenza. Ora solo assenza, quanti avrebbero voluto avere più tempo per conoscerlo, quanti non sanno più a chi chiedere consiglio, io vorrei solo il suo enorme e tenero abbraccio. “Fatti forza”, saluti, baci, parole.
Ma che ne sanno loro. La vita della mia anima si è spenta su quell’asfalto gelido quando il mio caldo corpo di mamma era steso accanto al suo, ormai esanime. Non avevo mai pensato di vivere questo momento. Fermo il suo cuore, fermo il tempo, ferme le ruote della sua moto. Vorrei tanto sapere cosa è successo, chi c’era lì in quel momento e ha taciuto. Forse capire mi aiuterebbe a esorcizzare questo dolore, questa fitta che mi uccide dentro. Forse.
Uno, due, tre… tutte le decorazioni dell’albero sono nel cartone del pandoro dell’anno scorso. Quante cose sono cambiate. È giunto il momento di staccare le luci.
Simona Leo è una disperata laureanda in Lettere presso l’ateneo barese e scrive recensioni letterarie per temperamente.it. Tra ciò che ama non possono mancare i libri, i cani e le calde tisane. Non sopporta solitamente gli ambienti troppo affollati, i raccomandati e gran parte delle verdure.
– – – – – – – – – – – – –
Ancora poche settimane e “Aleph” cambierà tema, ospitando per tre mesi nuovi racconti che abbiano come titolo “Uomini e no”. Continuate a inviarci i vostri racconti al nostro indirizzo info@puglialibre.it!
– – – – – – – – – – – – –
L’immagine di questo articolo è tratta da http://www.artmarta.it/
“Il mestiere di vivere” di Antonella Squicciarini
Era il primo dell’anno, e quell’anno si assicurò che avrebbe trovato il modo giusto. Non avrebbe rifatto gli stessi errori, perché era sfiancata, atterrita, prostrata. Ma tutta quella tristezza capitava nel giorno giusto, l’ultimo di trecentosessantaquattro; sarebbe bastato chiudere con un nastro verde tutte le parole, tutti i gesti e le sconfitte in quel diario, e aprirne uno nuovo. Ne scelse uno rosso e si appuntò i divieti e gli obblighi. In fondo era stanca di quelle paure sedimentate, delle rincorse al passato per ricreare tepori raffreddati e delle rassicurazioni ormai sconsacrate. Scrisse di quanto nuovo avesse bisogno, di quanti sorrisi inattesi, di quanto coraggio avrebbe trovato per prendere un aereo da sola e immergersi nell’assurdo di una cultura estranea. Sottolineò la parola coraggio. Si disse che avrebbe messo in ordine le idee, e trovato finalmente la strada più dritta e sicura per arrivare ad una certezza; che la bussola impazzita avrebbe trovato il suo nord, anche da sola. Riempì tredici pagine, e poi andò a stappare lo spumante della mezzanotte tra botti assordanti e individui allegri per qualcosa che ancora non sapevano. La mattina si addormentò con un occhio socchiuso.
Anche quell’agosto arrivò, caldo, con i rumori delle cicale ad accompagnare ogni pensiero. Quelle instancabili lavoratrici cantavano un attimo sì, ed uno no, e inseguire le frasi sulla carta opaca diventava un ritmo di corde scordate. Scordate erano quelle parole, sepolte da un anno trascorso per metà. Erano le parole dell’inizio, e come ogni inizio profumavano di novità, fiducia, curiosità. Ma non aveva mantenuto i propri propositi, era ricaduta esattamente nelle stesse stranezze; la storia, e l’anno, si erano ripetuti, scorticandole ancora le ginocchia. Era rinchiusa nel passato. Avrebbe potuto avere ancora settanta primi di gennaio sul calendario, settanta nuovi propositi, ma lei sarebbe rimasta la stessa ripetizione di alternative sbarrate. Era l’amaro in bocca di ogni fine anno: accorgersi che la vita non era andata come e dove voleva.
Per fortuna esistono gli aeroporti, un limbo di adrenalina e pazienza, con un potenziale triplicato in quel mese di dicembre. È il mese che preferisce, per la delicatezza di giorni che preludono ad un finale, ma che hanno il carico di undici mesi sulle spalle. Ha sbagliato per tutto l’anno, ma c’è sempre il tempo giusto da aspettare, e da cui essere ricompensati, alla fine. L’ha scritto sulle pagine opache e imbottite dalle pillole di trecentosessantatré giorni, che adesso può chiudere per salire finalmente su quell’aereo.
Antonella Squicciarini, laurea triennale in Lettere, in attesa di concludere i miei studi, alla ricerca della mia strada dritta. Scrivo abitualmente per il web-media Linkredulo, occasionalmente per la Repubblica Bari.it – Libri, e giornalmente per me stessa: questo è il mio rifugio. Leggo tanti libri e guardo tanti film, semplicemente per vivere tutte le altre vite che non ho avuto.
– – – – – – – – – – – – –
Nelle prossime settimane verranno pubblicati gli ultimi racconti della rubrica Aleph con il titolo “Il mestiere di vivere”. Successivamente, il tema e il titolo che dovranno avere i racconti da inviare al nostro indirizzo info@puglialibre.it sarà: “Uomini e no”. Aspettiamo i vostri racconti!