Category Archives: Monografia
Intervista a Maurizio Cotrona
Chiediamo innanzitutto a Maurizio Cotrona cosa gli abbia ispirato i contorni del suo originale protagonista… Si può dunque essere egoisti mentre ci si sforza di non esserlo?
Ho cominciato a lavorare sul romanzo con la sincera intenzione di costruire una voce positiva, ottimista, per rompere con una tradizione recente della letteratura italiana fatta di personaggi maledetti o falliti o scettici. Ho scoperto che Giordano diventava egoista mentre scrivevo, pagina per pagina.
Credo che l’egoismo più pericoloso sia proprio quello inconsapevole e consiste, essenzialmente, nella negazione della propria parte di responsabilità in ciò che di bene o di male esiste al mondo. Si può diventare egoisti attraverso l’indignazione: il mondo fa schifo e allora cerco di proteggere il mio recinto dalle minacce che vedo attorno, ovunque. Oppure attraverso l’evasione: il mio Paese è bello, le cose vanno abbastanza bene e allora posso dedicarmi a cuor leggero ai miei svaghi preferiti. Al pessimista bisogna rimproverare l’incapacità di incidere sul reale perché non ama ciò che biasima, all’ottimista bisogna fare la stessa critica perché non vede i problemi. Due atteggiamenti che conducono al medesimo esito: nessun cambiamento. «Occorre covare lo stupore, ma anche l’orrore», scrivo in Malafede. Occorre l’atteggiamento dell’innamorato che, proprio perché ama la sua terra, ne vede i frutti come le vergogne. E le combatte.
Ogni volta che Giordano si affaccia ai siti d’informazione, deve riconoscere: «La percussione delle notizie mi mette davanti agli occhi una parata di vittime». Quanto dipende dalla realtà odierna e quanto dall’accanimento dei mass media sugli aspetti scabrosi dell’esistenza? Le problematiche attuali influiscono inevitabilmente sulla vita dei singoli?
I giornali, per loro natura, si nutrono di eccezioni. Un evento qualsiasi non sarebbe una notizia se non rappresentasse una “novità” rispetto a qualche tipo di normalità. I media fanno il proprio mestiere, poi sta all’intelligenza di ciascuno capire che le notizie non rappresentano per intero i “fenomeni”. Per citare un esempio che si ritrova nel romanzo: se io leggo in prima pagina che è morto un neonato in un ospedale di Avellino e ne deduco che la sanità italiana è un colabrodo, faccio un operazione superficiale. La verità è che in Italia abbiamo delle statistiche sulla mortalità natale da fare invidia alla Svezia. Le statistiche non mitigano la tragicità dell’esperienza. Ma è vero anche il contrario, la tragicità dell’esperienza non mitiga il valore delle statistiche.
«Provate a immaginare un posto terribile qualsiasi: a Taranto è peggio –, e le colpe sono di chiunque non sia presente nel momento in cui state ascoltando il racconto». Cosa condividi delle considerazioni riguardo alla tua città di origine espresse in Malafede?
Ho scritto il libro proprio per stigmatizzare una mentalità del genere. Ragionare in termini di “meglio” o “peggio” è arbitrario e superfluo. A Taranto, come in qualsiasi altro posto del mondo, esiste uno spazio di possibilità. Grande o piccolo che sia, uno spazio di possibilità esiste. L’importante, mi pare, è che chi ama la città utilizzi questo spazio con concretezza, fantasia, entusiasmo. Senza paura di entrare dentro i luoghi del potere e resistendo alla tentazione dello scetticismo, che suggerisce l’inutilità di qualsiasi tipo di sforzo.
Sono tantissimi i giovani scrittori pugliesi di grande valore: cosa ha portato a questa fioritura di talenti? Possibile che quasi tutti debbano cercare altrove la propria realizzazione professionale?
Parlo per Taranto. Taranto è una città che non sta zitta. Spesso è costretta a parlare di dolore e di tradimenti, a volte parla di luce e di coraggio. Ma parla. Noi scrittori rispondiamo a questa voce. Credo.
È vero che molti “talenti” – come dici tu – hanno trovato spazio lontano dalla nostra regione. In Puglia ci sono molti piccoli editori coraggiosi, quello che manca è un editore di narrativa sufficientemente robusto, capace di prendere questa ricchezza e portarla con forza nelle librerie italiane. Qualcuno che faccia quello che riesce a Laterza per la saggistica.
Giovanni Turi
Intervista a Franco e Antonella Caprio
Con il romanzo Il segreto del gelso bianco (Besa Editrice) Antonella e Franco Caprio si sono aggiudicati il Premio LibriaMola 2010, il riconoscimento speciale dello staff di PugliaLibre come miglior romanzo pubblicato in Puglia lo scorso anno, infine, il secondo posto al Premio Letterario Via Po di Torino, giungendo dinanzi a concorrenti come Alessandro Defilippi, Alain Elkann, Massimo Gramellini, Enrico Remmert!
Sul loro bel testo noi di PugliaLibre ci siamo già soffermati, tra i primi, nel post del 24 febbraio 2010 quando era ancora una piacevole sorpresa dagli esiti incerti. Proviamo ora a scoprire con gli autori le chiavi del loro successo.
I romanzi pubblicati ogni anno sono tantissimi; oltre alla qualità stilistica e narrativa della vostra opera, cosa vi ha consentito di distinguervi tra gli altri esordienti e di raggiungere questi traguardi?
Antonella: l’aver narrato una storia vera e l’aver usato un linguaggio popolare e familiare altrettanto autentico e forte ha sicuramente colpito sia i lettori sia gli addetti ai lavori. La ricorrenza, poi, della celebrazione del Centocinquantenario dell’Unità d’Italia ha risvegliato il bisogno di rispolverare la memoria del nostro passato, per far sì che essa possa costituire un seme per il nostro futuro, e Il segreto del gelso bianco è stato individuato anche come romanzo storico che fa onore ai tanti italiani del popolo che hanno “fatto” la storia d’Italia.
I premi e i riconoscimenti che il romanzo si è accreditato sicuramente non sono per noi un traguardo ma un punto di partenza…
Franco: ritengo che il riscontro ricevuto dal romanzo sia da attribuirsi essenzialmente all’abbinamento di un prosa semplice ma non banale e di un racconto che riesce ad avvincere senza trascurare i contenuti, mescolando dramma ad ironia, in modo da poter essere apprezzato dai lettori più smaliziati come da quelli occasionali. E poi la scelta di abbinare un lirismo descrittivo ad un linguaggio diretto dalla sintassi dialettale, che rende più vivi e veritieri i personaggi e consente una immersione totale del lettore nel mondo che descriviamo.
Sicuramente vi hanno aiutato a farvi conoscere presso il pubblico dei lettori anche le tante presentazioni a cui avete preso parte. Volete raccontarcene una particolarmente riuscita e, magari, anche una disastrosa?
Antonella: sono molte quelle riuscite e indicarne una sarebbe fare involontariamente un torto alle altre, possiamo solo ringraziare i vari Presidi del Libro, le librerie, i circoli culturali (es. Pro-loco o Università della Terza Età) e gli istituti scolastici che ci hanno cordialmente accolto, diffondendo il romanzo in Puglia e in Piemonte.
Franco: a me non rimane che descrivere una presentazione poco riuscita in quanto chi doveva preoccuparsi di diffondere la notizia dell’evento (e precisamente il gestore di un lido balneare che aveva accettato di rientrare nel progetto “Spiagge d’Autore”, promosso dalla Regione Puglia e Confcommercio Puglia) ha pensato bene di lasciare usare ai suoi utenti la mazzetta degli inviti come zeppa per la gamba del bigliardino… quando si dice che: “in Italia la cultura sostiene il peso dello sport!”.
Come vi siete sentiti a concorrere con gli altri prestigiosi candidati del Premio Letterario Via Po? Pensate che l’ambientazione prevalentemente rurale e pugliese del romanzo via abbia penalizzato?
Antonella: non penso affatto che il romanzo sia stato penalizzato, anzi… arrivare secondi classificati ad un premio aristocratico, elitario e fortemente selettivo come appunto il Premio “Via Po” di Torino ed aver battuto i più blasonati e amati scrittori locali come Gramellini ed Elkann, significa aver presentato un romanzo che ha sconvolto i selezionatori (Margherita Oggero, Piero Soria, Sergio Pent) e gli oltre settanta giurati. Un romanzo che ha sicuramente rotto un po’ gli schemi e forse anche per questo è stato molto apprezzato.
Franco: visto il risultato riteniamo di no! Anche perché la realtà rurale pugliese che descriviamo è per certi versi assimilabile a quella di ogni regione italiana e quindi anche a quella del Nord e del Piemonte in particolare. Comunque considerando che il premio intende valorizzare la piemontesità e che nel nostro romanzo la città di Torino, che pure amiamo avendoci dato i natali, è vista con gli occhi di un emigrante che vi giunge nei primi anni ’60 e ne percepisce il grigiore, potrebbe pur essere che la cosa abbia avuto una minima incidenza.
Ormai in tanti attendono la vostra seconda prova narrativa: sarà ancora un romanzo a quattro mani? Ci concedete qualche anticipazione?
Antonella: si! Sarà ancora un romanzo a quattro mani, ispirato anche questa volta a fatti realmente accaduti. Ora ci stiamo lavorando ma il “grosso” del lavoro è svolto: c’è la trama, ci sono i personaggi, c’è il messaggio sociale, poiché con la prossima opera affronteremo un tema sociale importante: l’educazione. Di più non possiamo svelare.
Franco: Del prossimo romanzo in realtà una prima bozza l’abbiamo già stesa, ma occorre ancora un lungo lavoro di revisione. Non possiamo anticipare né il titolo né la trama, ma possiamo dire che si tratta di una storia attuale che si svolge in una scuola primaria di Torino. Ciò che possiamo anticipare è solo il sottotitolo: “cinico ritratto di scuola”.
Giovanni Turi
“Alboràn”: intervista a Emiliano Poddi
Emiliano Poddi, nato a Brindisi nel 1975, è stato tra i candidati al Premio Strega 2008 con il romanzo d’esordio: Tre volte invano (Instar Libri); c’era dunque una legittima aspettativa riguardo alla sua seconda prova letteraria, e non è stata tradita.
Quella di Alborán (Instar Libri, pp. 194, euro 13,50) è una storia delicata, intessuta di suoni e di silenzi: il protagonista è un autore radiofonico che, dopo aver perso il nonno da bambino, non ha saputo evitare di chiudersi in se stesso, timoroso che tutti gli affetti siano destinati a dissolversi troppo presto. La sua fragilità e la sua incertezza hanno finito per compromettere anche la relazione con Stefania: «aveva di continuo la sensazione che io tendessi a scapparle via, verso un luogo che nessun altro poteva raggiungere, e chissà se io stesso c’ero mai arrivato»; ma questa volta Luca è disposto a rischiare… Durante l’ultima puntata del suo programma, Space Bottle, ripercorre il recente passato e si prepara a giocare il tutto per tutto; al suo fianco l’anziano tecnico del suono Ezio, l’unico che abbia saputo colmare parte del vuoto pneumatico che lo circonda – l’unico se non si tiene conto, ovviamente, di Bruce Springsteen, la cui voce roca sa strappare Luca dalla paura e talvolta inaspettatamente indicargli la via.
Il suo è un romanzo sentimentale senza essere lezioso, ironico senza rinunciare alla profondità, nostalgico e insieme attuale: come e quanto si è applicato per ottenere un tale equilibrio strutturale ed espressivo?
Ho cercato di ispirarmi alla radio, che a proposito di equilibrio è un luogo piuttosto interessante. In uno studio di emissione ci sono i doppi vetri, la moquette, le luci soffuse e le pareti insonorizzate; ma questo ambiente ovattato è concepito allo scopo di inviare nell’etere un segnale forte e chiaro, come si dice. Trovo che i nostri ricordi più preziosi abbiano qualcosa di radiofonico: sono intimi e al tempo stesso orientati verso gli altri, nel senso che spesso ci viene voglia di raccontarli. Quanto alla possibilità di essere nostalgici e insieme attuali, un grande narratore del secolo scorso ha sistemato la questione una volta per tutte. La tradizione, ha detto Eduardo De Filippo, è la vita che continua.
I personaggi intorno a cui ruota Alborán sono solo quattro: Luca e il nonno, Stefania ed Enzo, e questi ultimi vivono soprattutto nelle pause del narrato. Come mai questa scelta ‘minimalista’?
In effetti me lo sono chiesto, tanto più che anche nel primo romanzo non è che ci fosse una gran folla di personaggi. La risposta che mi sono dato – provvisoria come la maggior parte delle risposte – è che i romanzi somigliano ai loro autori molto più di quanto essi siano disposti ad ammettere. Non è solo una questione di autobiografismo. Voglio dire che certamente Tre volte invano e Alborán mi somigliano perché ci sono finiti dentro alcuni pezzi della mia storia personale; ma forse mi somigliano ancora di più per questa evidente rarefazione di personaggi. Insomma, tanto per esser chiari: a un certo punto mi sono accorto che a me piace avere a che fare con pochi personaggi alla volta non solo quando scrivo…
Il successo di Tre volte invano ha rappresentato uno stimolo o un fardello? A cosa sta lavorando adesso?
Intanto si è trattato di un piccolo successo, non tale da generare aspettative enormi. Però è stato un esordio positivo, e questo ha agito in me sia da stimolo sia da fattore ansiogeno. Ma non sono sicuro che tra le due cose ci sia una grande differenza. Un mio mito – nonché amico, nonché personaggio di Tre volte invano –, l’ex campione di basket Roberto Cordella mi ha raccontato che prima di ogni partita gli è sempre venuto il mal di pancia. Ed era un buon segno, perché quando scendeva in campo troppo tranquillo, senza la stretta dell’emozione nello stomaco, be’, quella era la volta che giocava male. In altre parole, bisognerebbe trasformare l’ansia da prestazione in energia positiva. Io ci ho provato.
L’ultima cosa che ho scritto è un monologo teatrale che andrà in scena il 15 aprile al Teatro Verdi di Brindisi. Si intitola Revolution, parla degli anni ’60 visti da una piccola città del Sud – Brindisi, appunto. Si racconta dei Beatles, della corsa allo spazio e dell’arrivo della fabbrica. Sarà interpretato e diretto da una bravissima attrice, Sara Bevilacqua, anche lei brindisina. Come brindisini sono i due musicisti che la accompagneranno sul palco cantando le canzoni dei Fab Four.
Alcune delle pagine più suggestive di Alborán sono ambientate nel Gargano, a Mattinata: qual è il suo legame con la Puglia? Conta di tornarci stabilmente, prima o poi?
È un legame stretto, ma per ora solo narrativo, per così dire. La Puglia è l’ambientazione della maggior parte delle cose che mi capita di scrivere: e questo, per adesso, è il mio modo di tornarci. Mattinata è una questione a parte. Ci sono stato una volta sola molti anni fa, in una giornata di vento fortissimo e di mare in burrasca. Mentre ero in spiaggia mi sono ricordato di una poesia di Orazio che avevo studiato all’università: la Ballata di Archita. Parla proprio di quella spiaggia, del vento e del mare in tempesta. È stata un’esperienza curiosa: la forza dello spettacolo che avevo davanti sommata alla forza delle parole di Orazio. In più, come racconto nel romanzo, mi piaceva l’idea che Orazio avesse potuto scrivere una ballata, come Bruce Springsteen, il quinto “personaggio” di Alborán.
Giovanni Turi
“Vicolo dell’acciaio”: intervista a Cosimo Argentina
Con Vicolo dell’acciaio (Fandango libri, pp. 264, euro 15) Cosimo Argentina dà prova definitiva, qualora ve ne fosse ancora bisogno, della sua piena maturità narrativa: è un romanzo crudo e disilluso, in cui c’è un senso d’attesa gravoso e disperato; si tratta di un’opera impastata, come il linguaggio impiegato, di vita concreta e quindi scostumata e sorprendente.
Mino Palata è il figlio del Generale, un operaio dell’Italsider di Taranto, un prima linea il cui destino tragico pare ineluttabile. Mino studia legge, per lo meno ci prova, ma le sue vocazioni sono altre: osservare il microcosmo di via Calabria, ad esempio, «dove il novanta per cento delle famiglie ha il capo che se la spassa nel siderurgico»; oppure trasformare in scrittura quelle angosce che solo la bella Isa sembra saper sedare. Ma il demone che gli si agita dentro non è che il riverbero della realtà e incombe su tutti, nonostante le strategie che ciascuno adotta (come l’abnegazione famigliare della madre, o la tacita determinazione del Generale, o il viscido cinismo di Dòminik).
«Perché, onesto, noi siamo davvero per gli dèi come mosche pe’ l’ panarijedde… ci schiacciano così, giusto per passare il tempo. La loro non è crudeltà, è solo una realtà posta su una dimensione differente, perciò…». E talvolta ad assumere le sembianza di una divinità, o meglio di un mostro mitologico, è proprio il siderurgico, che «non dorme mai e si beve le anime e i cristiani»; ovvio allora che Mino e sua madre siano devoti al capofamiglia, un eroe che ogni giorno scende sul campo di battaglia, entra nelle viscere del mostro senza alcuna garanzia di farvi ritorno ed «è grato agli arrivati che gli somministrano lo stipendio… il salario è tutto».
C’è una forte continuità nella sua produzione letteraria, ad esempio è quasi costante la centralità del capoluogo ionico: sono solo le ragioni biografiche a renderlo il suo scenario prediletto? È una coincidenza che il padre del narratore si chiami Camillo come il protagonista di Cuore di cuoio?
Non preordinata, ma alla fine credo di aver scritto una sorta di quadrilogia tarantina dove Il cadetto è stato il romanzo della scoperta, Cuore di cuoio quello dei sogni, Maschio adulto solitario quello degli incubi e Vicolo dell’acciaio quello del dolore. Per un po’ mi allontanerò da questa lingua e da queste tematiche… ma siccome a volte ritornano…
Oltre al numero dei caduti (troppi in entrambi i casi), cosa le ha ispirato il parallelismo tra il lavoro nel siderurgico e la guerra? Davvero non c’è risposta plausibile al ricatto occupazionale e a sollevare i problemi ambientali sono solo ideologi, ecodoppler e adepti annoiati?
Sono sensazioni forti, indimenticabili. La letteratura di guerra resta la migliore in assoluto e noi narratori di oggi siamo – per fortuna – tutti un po’ orfani degli eventi bellici del secolo scorso. Ma in effetti il parallelo si può allungare a molte vicende umane. È la lotta per la sopravvivenza, per il pane e il dominio… se vogliamo sempre la stessa solfa. Quanto al ricatto occupazionale e all’ambiente io ho scritto di quelli avvinti alla catena. Gli altri facciano i passi che devono fare, ma un prima linea spingerà carrelli di ghisa ancora per molto.
Nella bella intervista rilasciata a Fahrenheit su Radio 3 ha confidato di aver scritto Vicolo dell’acciaio ben prima della pubblicazione del fortunato romanzo della Avallone, Acciaio; quali le vicende editoriali che ne hanno ritardato l’uscita?
Andrebbero chieste alla Fandango. Forse erano usciti con Foschini e non volevano pubblicare un altro libro sull’ILVA così a breve. Comunque il mio e quello della Avallone sono libri talmente diversi che non si pesteranno mai i piedi.
La sua ricerca linguistica si accosta sempre più a un gergo italo-dialettale dalla forte carica espressiva e realistica: non teme di essere tacciato di provincialismo o di risultare ostico a chi non ha alcuna confidenza con il tarantino?
Sì, lo temo, ma mi disinteresso della questione. Ognuno cerca il proprio linguaggio e il mio, sotto certi versi, è questo. Lascerò per strada lettori? Può darsi. Io però amo anche le sfide e in futuro tenterò altri linguaggi cercando di fare le cose al meglio delle mie possibilità.
«E poi mi lascio andare su un foglio di carta dove narro una storia, una distorsione, un semplice schizzo d’inchiostro che possa trasformarsi in una via di salvezza». Anche per lei, come per Mino, la scrittura ha una valenza catartica?
Sì, senza dubbio. Scrivo perché mi viene facile, so fare solo quello, e poi perché in questo modo tengo a bada le creature oscure che mi trascino nel fondo dell’anima da 47 anni.
Giovanni Turi
Intervista a Rossano Astremo
Rossano Astremo, scrittore pugliese (di Grottaglie), seguendo un copione ricorrente per le penne pugliesi, risiede a Roma. Dalla capitale ha scritto, per Newton Compton, 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita, e il recente (giugno 2010) 101 storie sulla Puglia che non ti hanno mai raccontato (pp. 300, euro 14,90).
Il taglio dato a questo secondo testo per la collana Centouno è interessante: c’è Federico II immortalato da un paparazzo ante litteram, ci sono le pettole e la scapece gallipolina e prodigi di santi e folletti, ma c’è anche tanta letteratura, una insospettabile presenza di riviste e artisti provenienti dalla Puglia o qui approdati. «Il critone», «L’Albero», «L’esperienza poetica» sono alcune delle riviste culturali citate da Astremo, insieme all’esperienza futurista salentina di Vittorio Bodini e a quella di Girolamo Comi; c’è Alda Merini e c’è Arthur Miller in visita a Monte Sant’Angelo.
Da un testo che titolo e veste grafica suggeriscono di sfogliare, si hanno sorprese positive, e i numerosi spunti inducono all’approfondimento, avvallando la teoria di Manganelli per cui i testi sono larghi, tridimensionali, in espansione.
Abbiamo intervistato l’Autore per PugliaLibre.
La prima domanda, per rompere il ghiaccio: come hai scelto le storie e come ti sei documentato?
Per la scrittura delle 101 storie mi sono documentato leggendo molti testi di storia locale, facendo ricerche su Internet e raccogliendo storie raccontatemi da amici e parenti. Credo che ne sia venuto fuori un ritratto della Puglia desueta e, spero, originale.
Il criterio con cui hai ordinato le storie è cronologico: è stata la sistemazione che ti è venuta subito in mente, per il materiale raccolto? È stato difficile bilanciare la presenza delle varie province? Ti sarà venuto spontaneo attingere prevalentemente dal tarantino, tua zona di provenienza, oppure la “pugliesità” si è acuita con la lontananza dalla tua regione di nascita?
Il criterio cronologico mi è sembrato il più opportuno e il più immediato per immergersi in questo viaggio nel tempo. Per quanto riguarda la presenza di storie ambientate nelle varie province, in effetti il fatto di essere cresciuto in provincia di Taranto e di aver studiato e lavorato a Lecce per molti anni ha influenzato la scrittura del libro. Senza trascurare per questo Foggia, Bari e Brindisi. Almeno, spero che gli abitanti di queste province non ritengano questa predilezione per Taranto e Lecce una ragione sufficiente per disinteressarsi al libro.
Trattandosi di un testo divulgativo, ho trovato interessante che tu abbia dato molto spazio a scrittori, registi e artisti, a scapito di qualche nota di folklore in più, che sarebbe stata la scelta più ovvia: hai voluto valorizzare le eccellenze pugliesi svincolando la regione da stereotipi su cibo e castelli?
Sì, ci sono molti scrittori e artisti nel libro. Perché questo? Perché a differenza di altri temi, quale le prelibatezze della nostra cucina, le vicende biografiche di molti di loro non sono note al grande pubblico. Mi sembrava interessante avere la possibilità di parlare all’interno di un testo divulgativo, di larga distribuzione, di poeti quali Salvatore Toma e Claudia Ruggeri e di artisti come Norman Mommens e Patience Gray.
Molte delle storie partono dalla descrizione di un personaggio con numerosi fratelli e che ha dovuto abbandonare gli studi ma ha comunque seguito un percorso vincente: è una trama che rappresenta la storia di molti pugliesi, credi che ci sia maggior merito ad emergere in Puglia?
Credo che questa visione del riscatto sociale sia comune a molti pugliesi del passato e del presente. Non credo che ci sia maggior merito ad emergere in Puglia, però penso che nel raccontare la storia di alcune eccellenze pugliesi nate dal nulla si può intravedere la mentalità di molti uomini e donne della nostra terra.
Al di là delle storie del passato, raccogliendo quelle più recenti e soprattutto quelle relative a scrittori e poeti, quale bilancio puoi trarre sulla Puglia attuale? Anche tu sei un “emigrato”: è ancora una necessità per molti pugliesi?
Lo stato attuale della scrittura pugliese mi sembra buono. Citando titoli recenti, posso consigliare La battuta perfetta di Carlo D’Amicis e La legge di Fonzi di Omar Di Monopoli. C’è da dire che fare lo scrittore in Puglia è molto difficile. Non è un caso che alcune tra le penne migliori della nostra terra vivano fuori regione. Penso a Desiati, a Lagioia, a D’Amicis, tutti da anni stabilitisi a Roma. Anche Di Monopoli, che è un autore che stimo molto, è venuto da poco nella capitale. Perché questo? Perché nonostante l’impegno di Nichi Vendola, la nostra regione è una terra che offre davvero poco per le giovani generazioni. Emigrare non è necessario, ma molto spesso vitale se si vuole crescere sul piano professionale. Non so se lo stato delle cose cambierà. Quello che è vero è che non credo di tornare più a vivere nella mia terra, pur amandola immensamente e pur provando un’immensa nostalgia. Cerco, però, di sublimarla scrivendo questi libri sulla Puglia. Dopo 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita e 101 storie sulla Puglia che non ti hanno mai raccontato, il prossimo anno sarà la volta di un libro sul crimine in Puglia. Nella speranza che i lettori siano tanti come i due precedenti.
Grazie a PugliaLibre. Alla prossima!
Carlotta Susca
Intervista a Raffaello Mastrolonardo
Pubblicato nel 2008 dalla Besa Editrice, Lettera a Léontine è riuscito a suscitare l’attenzione di molti lettori e un intenso passaparola, sino a diventare un piccolo caso editoriale. Così, grazie anche all’intermediazione dell’Agenzia Letteraria di Loredana Rotundo, l’esordio narrativo di Raffaello Mastrolonardo è stato adesso riproposto dalle edizioni Tea in una nuova ed elegante veste grafica (pp. 316, euro 10).
Un’esistenza alla ricerca del bello e di se stessi quella del protagonista del romanzo, ed è tra queste due coordinate che si consuma la promessa d’amore tra lui e Léontine; la fascinosa e volitiva donna non potrà che minare la mendace armonia su cui poggia la quotidianità di Piergiorgio, medico affermato e padre premuroso, oltre che esteta narcisista, ammaliato dall’arte e dalla musica, dall’incanto della sua Puglia e dalla dolcezza dei ricordi. «Tu hai smosso un equilibrio che pigramente mi ero costruito, e la vita artificiosa, appagante, la tana del mio letargo emotivo, l’ho improvvisamente vista nella sua luce e dimensione reale».
Scrittura limpida, piana, quella di Mastrolonardo, che si accende di lirismo in alcuni brani (il Prologo in particolare), sino al drammatico e inatteso crescendo del finale, dove l’ingombrante voce dell’io narrante si fa meno sicura, e dunque più struggente e spontanea.
Si aspettava un tale successo della sua opera e cosa, secondo lei, lo ha decretato? Solo la brama d’amore e la sensibilità alla sofferenza dei lettori?
Sapevo d’aver scritto un bel romanzo, ma non m’aspettavo tanto successo. Le componenti sono molteplici: il candore narrativo, il fascino dell’amore, la complessità della trama, la molteplicità delle passioni, ma soprattutto la bellezza del linguaggio. Libeccio, uno dei protagonisti del romanzo che, come altri, esiste davvero mi ha detto: “Sai perché Léontine piace così tanto? Perché tu non l’hai scritto da autore, ma da lettore. Hai scritto il romanzo che avresti da sempre voluto leggere”. Ed ha ragione.
Oltre a quello per Léontine, Piergiorgio manifesta un intenso amore per la figlia, per l’arte, per la città di Bari e per la sua provincia: quanto vi è dei sentimenti dello stesso autore in queste emozioni?
Tutto. Non ho difficoltà ad ammettere l’autobiografismo nel mio romanzo. La storia d’amore fra Lea e Piergiorgio è frutto di fantasia. Tutto il resto è vissuto: De Nittis, la musica, l’amore per il mare, per Bari e per la Puglia, per mio padre, per le mie figlie, le poesie, i luoghi. Tutto. Il lettore percepisce la sincerità e l’apprezza, percepisce la passione e la condivide.
È una storia d’amore, ma anche un romanzo d’analisi che sottolinea l’importanza di ripercorrere il proprio vissuto per riconoscersi e dell’uso terapeutico della scrittura. Il referente principale di ogni nostra azione siamo, dunque, sempre noi stessi?
Certamente. Stavo per dire “ovviamente”, ma di ovvio purtroppo non c’è nulla. È difficilissimo ripercorrere e soprattutto riflettere sul proprio vissuto, siamo spaventati dall’idea di farlo, dal timore di scoprire cose sgradite. Talvolta ci riusciamo, in questo la scrittura è assolutamente d’aiuto, ed ecco che nasce un romanzo come il mio. Il solito Libeccio, psichiatra, ha detto: “I sei mesi in cui hai scritto Léontine ti sono valsi più di dieci anni di terapia da me…” . Ed anche in questo ha ragione.
La trama fa pensare a Non ti muovere della Mazzantini: anche lì il protagonista è un medico sposato che si innamora di una donna non propriamente bella… Quali sono i suoi riferimenti letterari?
Tanti, troppi per poterli citare. Ho il mio scaffale dei “libri per la vita”, ma è una selezione limitativa ed ingiusta. La verità è che ci sono quarant’anni di letture incessanti, bulimiche, tutte sedimentate nell’anima, talvolta nascoste o apparentemente dimenticate. Ma sono tutte lì…
Giovanni Turi