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Intervista a Cristina Zagaria
Cristina Zagaria è una giornalista della redazione napoletana della Repubblica, ma le sue radici affondano nella bruna terra pugliese: i suoi genitori sono tarantini ed è nella città ionica che Cristina ha vissuto l’adolescenza, per poi laurearsi in Lettere presso l’Ateneo barese. Ha esordito nel 2006 con il romanzo Miserere (Flaccovio) e ora è già alla quarta pubblicazione con Perché no (PerdisaPop, pp. 118, euro 9).
La sua ultima opera, come la precedente (L’osso di Dio, Flaccovio), pone l’accento sul mondo criminale e sulla difficoltà di riscattarsi per chi ne diventa vittima o carnefice. Perché no racconta l’“iniziazione” di Daniele, un ragazzo assennato che per accidia si lascia convincere da Francesco a compiere una rapina: “tanto per la legge non siamo adulti” e poi, così, possono “entrare nel giro, quello dei più grandi”. Già, perché là dove si smarriscono il senso dell’infanzia e quello dei sogni conta diventare qualcuno, farsi rispettare e fatalmente l’obbiettivo sarà Adriana, che ha appena ritirato la pensione del padre, ed è stata la loro maestra; si illudeva di aver trasmesso dei valori, o quantomeno il suo amore, ma qui la vita non ammette debolezze, altrimenti subisci il “salasso”, diventi succube…
Un noir amaro e vivido nella caratterizzazione dei personaggi, non meno che nell’affresco dei quartieri degradati di Napoli; quanto ti è servita l’attività giornalistica nella resa plastica e minuziosa della realtà?
Tantissimo. In questo piccolo libro c’è tanto della mia esperienza “da cronista” a Napoli e, soprattutto, nel periodo in cui ho scritto “Perché no”, tutte le mattine andavo a fare una lunga passeggiata nel quartiere Sanità, fermandomi a parlare con la gente. Volevo immergermi nel quartiere di Daniele e Francesco e non raccontare una Napoli stereotipata. Volevo che in “Perchè no”, ci fossero quei vicoli, quei volti, quegli odori… non vicoli-volti-odori generici.
«Non ho argomenti. Non ho un motivo per dirgli “France’ sei ammattito? Io non lo faccio, perché…”». Davvero Daniele non può opporre resistenza? Se i genitori non contano (tanto “le mazzate si dimenticano”), allora almeno l’amore per la candida Lucia, la sua stima, non rappresentano un deterrente?
Daniele e Lucia sono troppo piccoli per conoscere veramente l’amore ed esserne trascinati nel bene o nel male. Certo a Daniele Lucia piace e molto. E Lucia ha, come dire, la “testa sulle spalle”, ma non basta. Quando ho deciso di scrivere questa storia (realmente accaduta), l’ho fatto proprio perché mi ha colpito molto che a Napoli i ragazzini diventano baby criminali non per convinzione, scelta o necessità, ma per mancanza di alternative, per la latitanza della società civile, della scuola, della famiglia. Insomma perché “non hanno motivi per non diventarlo”.
È un racconto ispirato a un episodio di cronaca, qual è dunque il confine tra realtà e letteratura? E il compito di quest’ultima è solo di rappresentare o anche di interrogare e ammonire?
Un confine definito non c’è mai. Anche molti romanzi di fantasia spesso prendono spunto da fatti di cronaca. Il mio modo di scrivere è più netto, cioè ricostruisco sempre episodi veri con un lavoro “giornalistico”. Perché lo faccio? Perché un romanzo ha un respiro più ampio di un articolo di giornale e ha una vita più lunga… e sia la cronaca che la letteratura devono interrogare la realtà e interrogarsi. Sempre. Io non prendo mai posizione (o almeno cerco) quando scrivo, ma la mia presa di posizione è alla base: è nella scelta della storia. Io racconto e lascio al lettore la possibilità di farsi un’idea, di prendere una posizione, ma proprio in quel momento entrambi ci facciamo delle domande.
Conosci Andrej Longo? Anche lui descrive Napoli in forma letteraria senza alcun filtro, e lo scenario che ne emerge è a dir poco allarmante… Quali sono i tuoi scrittori napoletani (e non) di riferimento?
Andrej Longo è venuto spesso in redazione, a Repubblica Napoli, e mi sono fermata a parlare con lui. Ma lo conosco più come scrittore… lo adoro. Scrittori di riferimento napoletani? La Ortese, sicuramente. Non napoletani: Jean-Claude Izzo, Agota Kristof, Haruki Murakami… Truman Capote, Italo Calvino, Luigi Pirandello… e… e la lista è lunghissima, sono una lettrice accanita.
Dopo aver vissuto in Puglia, Emilia Romana, Lombardia, Lazio, ti sei stabilita in Campania, a Napoli. Cosa ti ha conquistata di questa terra? Rimpiangi qualcosa della Puglia?
Napoli la amo. Mi piace l’anima della città. È un’anima incasinata, folle, contraddittoria… non sempre positiva… ma piena, accogliente, fantasiosa, galante, romantica, attaccata alla vita con i denti. La Puglia? Taranto mi manca ogni giorno. Dei tarantini rimpiango la schiettezza… siamo un popolo diretto, semplice, essenziale, a volte anche un po’ “ruvido”… qualità che non sempre vengono comprese e che proprio per questo mi mancano terribilmente.
I prossimi progetti lavorativi e non dove ti vedranno? Ma soprattutto, nelle vesti di scrittrice o in quelle di giornalista?
Ahimè il lavoro con il giornale si materializza di giorno in giorno. È questo il suo fascino. Per i progetti da scrittrice: sono tornata in Calabria (altra terra a me cara) per raccontare un’altra storia vera… un’altra storia al femminile. Il libro uscirà ad ottobre. Ma da buona “napoletana” sono scaramantica… non dico altro.
Giovanni Turi
Intervista allo scrittore Vito Bruno
Vito Bruno, che continua a definirsi alberobellese sebbene viva a Roma da diversi anni, ha esordito con Per invecchiare ho bisogno di tempo (Stalker, 1990), a cui sono seguiti Cirlè ed altri racconti (Feltrinelli, 1995), Mare e mare (e/o, 2000) insignito del premio Selezione Campiello, Domenica ti vengo a trovare (Marsilio, 2003), Il ragazzo che credeva in Dio (Fazi, 2009) e, infine, L’amore alla fine dell’amore (Elliot, 2010).
La sua ultima opera è un testo intenso e drammatico che denuncia l’ottusità della legge italiana in materia di divorzi: è sempre e comunque la donna a essere privilegiata e a ottenere l’affido dei figli. Vito Bruno nell’Amore alla fine dell’amore compie l’estremo tentativo di capacitarsi del naufragio del proprio matrimonio e di rivendicare il ruolo di padre; attraverso uno stile intimo, si denuda come uomo, come scrittore e come genitore, donando al lettore un diario, un’arringa, ma anche un commovente romanzo d’amore…
«Mi ero così abituato alla sua presenza al mio fianco che era diventato impossibile immaginarmi senza di lui. Figuriamoci immaginare qualcuno che deliberatamente volesse portarmelo via, separare un padre da un figlio: la cosa più assurda e innaturale del mondo. E invece, proprio questo stava accadendo adesso. E per mano non di uno sconosciuto, ma della donna che ho amato più al mondo».
Abbiamo incontrato l’autore in una luminosa giornata di aprile, in cui il vento freddo rendeva l’aria tersa e portava lontano l’eco di ogni parola. Il suo sguardo è malinconico e sereno, come quello di chi sa di dover affrontare una battaglia che non ha voluto e che rappresenta in ogni caso una sconfitta, ma diviene incredibilmente dolce quando incrocia gli occhietti vispi del figlio che reclamano continuamente la sua attenzione.
Si legge il testo con la sensazione di inoltrarsi impudicamente nel dolore del narratore, come se si avesse a che fare con un diario lasciato incautamente in bella vista. Come hai trovato il coraggio di raccontarti?
Quello di scrivere per me è sempre stato un impulso elementare, come quello di nutrirsi o di respirare; la scrittura è un gesto involontario, necessario per affrontare la vita. Come mia madre è solita preparare le melanzane sott’olio per “conservare l’estate”, così io ho avvertito l’esigenza di preservare la memoria della stagione più intensa della mia vita…
La tua ultima opera è scritta col cuore, ma in forma altamente letteraria. È un diario consegnato a tuo figlio e alla tua ex moglie, un’arringa rivolta alla società o un esame di coscienza?
Un po’ tutto questo insieme: la parte che si sofferma sull’aspetto giuridico legale vuole invitare a discutere, a considerare la posizione di vantaggio concesso alla donna nella pratica di divorzio, che storicamente ha una ragion d’essere essendo nei secoli la donna il soggetto “debole” nelle relazioni coniugali – e non solo –, ma che spesso al giorno d’oggi degenera in situazioni di ingiustificato privilegio. Inoltre ho pensato a un documento da offrire un giorno a mio figlio, perché possa provare a capire, cosa è successo ai suoi genitori, cerando di salvaguardare l’amore che c’è stato e che continua, nonostante tutto, a esistere.
Quanto alla letterarietà ho sempre mirato a che nei miei scritti questa non fosse fine a se stessa; detesto l’artefatto, perché ritengo che la realtà debba irrompere nella letteratura e che quest’ultima abbia il compito di rappresentare la vita.
Dai due amori che in un certo senso ti hanno tradito (la tua compagna e la scrittura come professione) ne sono scaturiti due che perdurano (quello di tuo figlio e dei tanti lettori). Il tuo bilancio come uomo è espresso nell’ultimo testo, qual è quello come scrittore?
La scrittura è un investimento fine a se stesso, una gratificazione in sé, anche se tutti prima o poi sperano di ottenere i riconoscimenti che credono di meritarsi. Amo tutti i miei libri e non avrei potuto rinunciare a scrivere nessuno di essi, a seguire l’etica della scrittura, in cui rientra anche quest’ultima opera, sicuramente la più personale.
In tutti i tuoi libri è presente la Puglia, ritornano le tue origini; qual è il legame della letteratura con le proprie radici?
Gli scrittori hanno un solo immaginario, il mio pur avendo vissuto a lungo a Roma si è formato in Puglia, ecco perché non posso staccarmi dai suoi luoghi e dalle persone che li popolano.
Lo stato della lettura in Italia è allarmante, in Puglia è drammatico (è terz’ultima tra le regioni italiane per numero di lettori). Cosa ne pensi a riguardo?
In verità quanto mi riferisci mi sorprende: vedo una grande animazione, gruppi di lettura, incontri letterari; oltretutto la Puglia ha una dinamicità maggiore rispetto al resto del Meridione… Occorre però insistere ovunque sulla lettura, perché rappresenta un’irrinunciabile chiave dello sviluppo.
Vito Bruno presenterà la sua ultima opera venerdì 30 aprile alla libreria Im@n di Massafra, mercoledì 19 maggio ad Alberobello, per conto del Presidio del Libro locale, e sabato 22 maggio presso la Libreria Colucci di Martina Franca. Per ulteriori aggiornamenti è possibile visitare il sito internet personale dello scrittore: www.vitobruno.it.
Giovanni Turi
“Riportando tutto a casa” di Nicola Lagioia
Bari tra il 1985 e il 1988 è una città in ebollizione, una città nelle cui vene scorre più denaro di quanto se ne fosse mai visto. Una rincorsa all’accumulazione che è sospinta dal resto d’Italia, grazie anche alla più grande novità di quegli anni, le televisioni private che distribuiscono un unico modello di gusto, di comportamento, di futuro in tutto il Paese senza distinzioni. Una Bari sempre riconoscibile, anche quando i nomi dei luoghi vengono appena distorti, è quella dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa (pp. 290, euro 20), che ha ottenuto importanti riconoscimenti e che prosegue sulla strada tracciata dal precedente Occidente per principianti, pubblicato cinque anni fa sempre per Einaudi. Sono molteplici i livelli sui quali è possibile effettuare una lettura del romanzo di Lagioia. Ci preme per primo considerare quello che unisce, non sappiamo quanto consapevolmente, lo scrittore barese nonché editor della casa editrice minimum fax, con un altro suo quasi coetaneo scrittore pugliese, Mario Desiati. Non può infatti sfuggire il parallelo punto di partenza da cui partono i due autori, probabilmente i più rappresentativi della “nuova generazione pugliese”, nei loro ultimi lavori. Come Desiati in Foto di classe, infatti, raccontava nello stile del reportage la ricerca dei suoi ultimi compagni di classe, e da questa poteva riuscire a sviluppare un discorso sul nuovo fenomeno migratorio dei giovani “fuori-sede” pugliesi nel Nord Italia, così Lagioia, nella forma di un vero e proprio romanzo di formazione, fa compiere al protagonista quasi gli stessi gesti (l’elenco telefonico tra le ginocchia, la ricerca più o meno fortunata, in mezzo a centinaia di omonimi, di notizie del proprio compagno di classe su Google), e riporta nel titolo stesso del romanzo, ripreso da un album di Bob Dylan, quella che apparirebbe una risposta, o meglio una conferma, del quadro già raccontato da Desiati, se non fosse che, alla fine del romanzo, appare invece chiaro che un ritorno non è più possibile.
L’altro livello rilevante da considerare è quello dei principali protagonisti, tre adolescenti la cui storia segue, tranne nel caso del protagonista-narratore, quella della loro famiglia. Così Antonio Rubino è il “testimone inconsapevole” della ricchezza gonfiata che gli è attorno, legata però all’intreccio tra imprenditoria, mafia e usura. Vincenzo Lombardi, descritto come un “angelo sterminatore”, cerca in ogni modo di trarre in scacco suo padre, avvocato di grido della città con relazioni pericolose, ma non rimanendogli alla fine che proseguire sulla strada per la quale era stato destinato, vedendo appassire ogni suo tentativo anti-conformista di uscire dal giogo paterno. Tutti e tre i protagonisti, e con loro Rachele, la compagna del narratore, si ritrovano adolescenti a calcare tutte le mattine le strade del quartiere Japigia, il più grande mercato italiano dell’eroina negli anni Ottanta, e trovano ospitalità nella casa di un ambiguo spacciatore, almeno all’inizio, prima che le loro strade finiscano per dividersi per sempre, il narratore e Rachele chiusi nella chioccia di un sacco a pelo, Vincenzo a esplorare le strade sterminate fino ai confini del quartiere e della città, Antonio lasciandosi salassare dalla droga fino a rischiare la vita.
Sopra le teste dei protagonisti si agita però un’onda che lascia sul campo coppie infelici, ricoveri coatti per stress da lavoro, rappresentanti incapaci di tenere il passo degli ordinativi, con il sottofondo, da quegli anni in poi eterno, del ronzio televisivo a ogni ora del giorno e della notte. Ed è proprio dalla televisione che arrivano i segnali delle catastrofi mondiali che per i personaggi è facile tradurre in profezie di tragedie personali. Succede così durante la diretta di Juventus-Liverpool e della strage dell’Heysel, con l’urlo di paura successivo al gol di Platini, o dopo le notizie di Chernobyl e degli slogan reaganiani. Un periodo storico che si può ben racchiudere, in un’immagine suggerita da Lagioia in una presentazione dello scorso mese di novembre alla Libreria Laterza di Bari, nell’alone viola che dominava la pubblicità “progresso” sull’Aids alla fine degli anni Ottanta.
Come ha scritto Goffredo Fofi su «Lo Straniero», «Lagioia dimostra la difficoltà che si incontra a “fare storia”, e a fare romanzo come storia, per l’impossibilità di mettere ordine in un universo sociale così sgangherato come il nostro, dopo gli anni Ottanta. In un mondo che va voluttuosamente al disastro, e che sembra felice di andarci, l’accettazione dell’età adulta è accettazione di una sconfinata mediocrità e di una sconfinata brutalità: è violenza su di sé, gli altri, la natura, il pensiero».
Stefano Savella
Intervista a Livio Muci/2
Ieri abbiamo pubblicato la prima parte dell’intervista a Livio Muci sulla sua esperienza di editore in Puglia. La seconda parte dell’intervista esclusiva, che riportiamo oggi, si sofferma invece sullo stato dell’editoria in Puglia e sulle problematiche riguardanti la promozione della lettura e della piccola e media editoria nei confronti delle istituzioni, in particolare quella regionale.
Qual è la situazione attuale in merito all’approvazione di una legge regionale sull’editoria in Puglia? Poche settimane fa un’altra libreria pugliese, lo Spazio Letterario Kube di Gallipoli, ha chiuso i battenti: ritiene che si possa invertire questo trend?
Non conosco nei dettagli lo stato della legge che è stata presentata. Mi si dice che entro l’anno dovrebbe essere approvata, ma intanto non c’è stata nemmeno la convocazione dei cosiddetti “esperti” per dare qualche parere in merito.
Il problema di fondo è che non si fa concretamente nulla per favorire la lettura. Se gli argomenti racchiusi in un libro sono solo il pretesto per organizzare eventi, non ci si può meravigliare della chiusura continua delle librerie. Se si continua così, a parte qualche libreria di catena come le Feltrinelli, Mondadori, Ubik o Edicolè, le librerie indipendenti non sopravviveranno e spero che a quel punto qualcuno non affermi che «tutto ciò è un peccato», perché quello che sta accadendo corrisponde a una precisa responsabilità politica di chi aveva gli strumenti per intervenire e non l’ha fatto. Altre regioni l’hanno fatto, e l’hanno fatto bene, e naturalmente i vantaggi di questa operatività si vedono continuamente. Manca completamente una politica per l’editoria.
Mentre le librerie chiudono, al di là dell’oceano le grandi multinazionali mettono sul mercato sempre più «libri elettronici», da Kindle in su. Qual è la situazione in Italia in proposito?
Io ho appena acquistato un Kindle. Devo dire che sia l’operazione dell’acquisto che quella della messa in funzione sono abbastanza complesse, e non vorrei che si considerasse imminente qualcosa la cui introduzione in l’Italia verrà dilatata almeno di qualche anno.
Mi sembra più grave quanto dicevo prima, cioè questa sorta di appiattimento a livello pugliese, e che non si riesca a tirar fuori, benché esista, una sorta di punta di diamante, di eccellenza di questo settore, sia nel campo degli autori, sia in quello della critica letteraria, sia nel campo editoriale in senso stretto, preferendo al contrario una sorta di opacità totale in cui tutto sia uguale, dal professionista di paese che scrive poesie all’amata non corrisposta, a situazioni dal punto di vista letterario e saggistico di grande prestigio, un prestigio che viene rilevato solo quando l’autore in questione emigra verso una casa editrice nazionale. Fino ad oggi infatti i media sembrano accorgersi di un autore pugliese solo quando pubblica con case editrici, talvolta anche molto piccole, ma fuori dalla Puglia.
Intervista a Livio Muci/1
Sull’ultimo numero del nostro magazine abbiamo intervistato Livio Muci, fondatore delle case editrici pugliesi Besa Editrice e Edizioni Controluce e docenre di Editoria multimediale all’università del Salento e presso Master a Urbino. Pubblichiamo oggi la prima parte dell’intervista e domani la seconda parte.
Accanto all’esperienza di Besa Editrice, che continua a rappresentare un punto di riferimento nella media editoria pugliese, da pochi anni lei ha ispirato il nuovo marchio editoriale Edizioni Controluce. Quali sono le peculiarità di questa nuova casa editrice? Quanto è importante per un editore che opera in periferia costruire un catalogo composto in prevalenza da traduzioni? È un investimento che ottiene successo in ambito regionale e nazionale?
Può apparire un controsenso, dopo aver contribuito ad affermare una sigla, Besa Editrice, con una sua identità e un suo riconoscimento, pensare a una seconda sigla e dover rifare completamente un lavoro svolto nell’arco di almeno un decennio. La verità è che Besa è finita per diventare, oltre al progetto originario, tante altre cose. Cioè è diventata quella che si suol definire una casa editrice generalista.
Con Controluce vorrei personalmente tornare al punto di partenza, al progetto originario così com’era nato, ma rielaborato alla luce di una certa esperienza. Perciò, schematicamente, Controluce avrà una produzione esclusivamente di traduzioni o di una serie di titoli “pescati” per favorire un affaccio sulla finestra del mondo. Besa invece, pur continuando anch’essa ad avere questa funzione, è allargata ad altre collane come quella sul cinema, che nel 2010 prenderà un nuovo slancio. Ci sarà questa ripartizione tra una casa editrice più specializzata rispetto ad un’altra che è un contenitore molto più vasto e che al suo interno può avere tutto.
Per quanto riguarda le difficoltà, esse sono evidenti: ricordo sempre a me stesso che la Puglia totalizza appena il 2% del mercato nazionale del libro. È quindi evidente che una casa editrice come Controluce, che guarda a un certo tipo di iniziative, in una regione come la Puglia ha poco riscontro, anche perché curiosamente quando l’istituzione pubblica, la Regione nella sua interezza, ha mostrato interesse, probabilmente più per obblighi istituzionali che per sensibilità, verso questo tipo di tematiche, ad esempio penso ai Balcani, poi in concreto sull’aspetto specifico dell’editoria non c’è stato nessun fatto nuovo. Tutto lo scambio con l’Oriente viene inteso o solo come rapporto istituzionale o come una serie di eventi soprattutto musicali e cinematografici, che poi non costruiscono realmente quel collegamento auspicabile che l’editoria, la lettura, la letteratura ecc. potrebbero rinsaldare meglio.
Sul piano nazionale invece il percorso di Controluce è nella normalità, rientrando tra quelle case editrici che devono affrontare costi, per questo tipo di attività, molto rilevanti, e ovviamente anche penalizzanti, rispetto a dei colossi che in questo tipo di produzione possono assumere titoli più costosi e di richiamo e poi affrontare i costi con più scioltezza. La scommessa è proprio questa, anticipare i colossi che arrivano spesso tardivamente, dopo che altri centri di cultura hanno sancito che quel determinato libro, quel determinato autore può dirsi “blasonato”. Per esser chiari, se un autore ha successo a Parigi o a Francoforte o a Londra viene automaticamente tradotto in Italia, anche se quasi sempre dall’inglese o dal francese, e non dalle lingue originali. Naturalmente si può capire che lottare contro questo sistema non è certo semplicissimo però la scommessa va condotta comunque fino in fondo.
Lei ha contribuito a fondare in Puglia i “Presìdi del libro”, che rappresentano un movimento importante per la promozione della lettura sui territori, ma sulla cui efficacia in termini di incremento del numero dei lettori è in atto da tempo una riflessione complessa. Quali ritiene possano essere gli aggiustamenti necessari per rendere più incisiva la loro attività?
Partiamo da un presupposto: la Puglia legge poco. Allora è necessario riflettere sul perché quella serie di eventi promossi lodevolmente, tra gli altri, anche e soprattutto dai Presìdi del libro, ai quali sono comunque favorevole, di cui continuo a far parte e che auspico possano proseguire, di fatto non produce un allargamento della base dei lettori. Il problema mi pare che consista nel fatto che è difficile radunare un pubblico per la lettura vera e propria.
Educare alla lettura non è sicuramente un compito facile, e la soluzione viene spesso cercata con forme sinergiche accattivanti per il pubblico, e a questo si aggiunge il fatto che la partecipazione a questi eventi, in molti dei nostri paesi, fa “tendenza”, per dirla con una battuta. Sta di fatto che se questo non genera il desiderio di leggere, l’esperimento va in buona parte rivisto.
Da questo punto di vista devo rilevare un’incongruenza in relazione all’attività politica, in quanto tutto il sostegno dato ai Presìdi del libro non si sostanzia mai, per esempio nell’acquisto dei volumi, e questo potrebbe essere davvero un incentivo alla lettura. Se è vero infatti che viene spesso sottolineata la difficoltà nell’acquisto dei volumi, favorirne l’acquisto con un programma di sostegno da parte dell’ente pubblico può diventare uno strumento di diffusione del libro stesso.
La verità è che sempre più spesso noi editori riceviamo dalle biblioteche, pugliesi in particolare, la richiesta di ricevere libri gratis. E allora non si capisce il senso stesso dell’operazione. Questo tipo di richieste fa meditare, perché se dobbiamo regalare i libri alle biblioteche, cioè agli organismi pubblici, se dobbiamo assistere, quasi senza ricavare vantaggi, a una serie di eventi, piuttosto che risolvere il problema della lettura, allora qualcuno come me si chiede che senso abbia proseguire questa attività.
Stefano Savella
Intervista a Raffaele Nigro/2
Pubblichiamo oggi la seconda e ultima parte dell’intervista che ci ha rilasciato Raffaele Nigro per il mese di novembre. In queste ultime due domande, lo sguardo si allarga a una visione sullo stato della piccola editoria in Puglia, oggetto delle nostre informazioni, e sul futuro del Mediterraneo e dei suoi rapporti con l’Europa.
Nella Sua pluridecennale esperienza di scrittore, giornalista e animatore culturale, parte importante del Suo lavoro ha riguardato l’attenzione e per certi versi la promozione delle pubblicazioni di piccole e medie case editrici locali. Può dirci il Suo pensiero sul presente e sul futuro delle piccole realtà editoriali locali?
Tipograficamente le case editrici locali si sono molto arricchite, sono diventate realtà belle e interessanti. Purtroppo i capitali non le aiutano e per cui hanno difficoltà ad avere una distribuzione che superi il Garigliano. Adesso per fortuna c’è internet e allora la vendita on line, l’immissione in rete dei loro cataloghi favorisce l’uscita dalla nicchia, però fintantoché il libro resterà un oggetto da toccare, da vedere e da guardare, la presenza in libreria rimane ancora fondamentale. E questa è la lagnanza più grossa che io faccio a proposito dell’editoria locale, e cioè che tipograficamente ha raggiunto dei grandi livelli, però ancora non si dà dei direttori editoriali che vogliano affrontare il mercato nazionale e globale, anche se comincia a darseli un po’ a macchia di leopardo.
In una Sua recente intervista ad «Avvenire» ha rilanciato la proposta di un “parlamento degli scrittori del Mediterraneo”. Negli ultimi anni è avanzata sempre più l’idea di un “cimitero chiamato Mediterraneo” per rievocare i migranti morti nelle traversate. Crede che sia più importante l’impegno dell’Unione Europea per spostare il suo baricentro verso sud o che i paesi del Mediterraneo, nel loro complesso, conservino una loro autonomia distintiva dal continente europeo?
Io penso che l’Europa non ha fatto niente o ha fatto poco per avvicinarsi al Mediterraneo e ai paesi a sud del Mediterraneo e che sarebbe proprio il caso di svegliarsi, di cercare maggiori rapporti e non continuare a considerare quei paesi o come colonie o come luoghi da cui fuggono i poveri che verrebbero a toglierci lavoro e denaro nell’Occidente e in Europa. In quanto ai paesi del sud del Mediterraneo, credo che essi tenderanno a cambiare perché è nella logica delle cose e poi perché sono paesi che vogliono entrare nella modernità e io ritengo che le notizie troppo eclatanti relative al fondamentalismo islamico uccidono l’Islam moderato che è quello poi più diffuso in questi paesi. E anche il fatto che noi del sud dell’Europa abbiamo sempre dialogato con queste popolazioni mi fa pensare che sia proprio il caso che l’Europa e il sud del Mediterraneo debbano dialogare in maniera molto molto più stretta; tuttavia rimane sempre la frattura…