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Poesia qualepoesia/50: Fra spazio e testo: il minimalismo della parola in Paola Mancinelli

50-paola mancinelli

Rubrica a cura di Francesco Aprile

Paola Mancinelli, nata a Taranto nel 1974, approfondisce studi filosofici e teologici ottenendo il titolo di Magistero in Scienze Religiose. Artista visiva, si occupa di poesia e installazioni dove a dominare è la componente visuale e spaziale della parola. Attraverso la sua ricerca lega a doppio filo parola e struttura minimalista; l’itinerario poetico è liberato in una spazialità strutturalmente minima, essenziale. Nel 2013 è vincitrice del contest Bolognawaters, nella categoria parole fotografate. Ha pubblicato il libro “Poesia, tempo presente. La parola e il tempo”, per la collana “i quaderni del concetto” della Galleria Cosessantuno Artecontemporanea (Print Me Ed., Taranto 2014). È parte della redazione online della rivista “Atelier”.

Ad annodare parole, spazio, tempo e ritmo all’interno di una struttura minima, scarna, è quella radicale ricerca di senso che, nella liberazione stessa del testo dai suoi orpelli, l’autrice sembra perseguire; la forma rigorosa e minima tende ad articolare la parola nello spazio, secondo un procedimento che non è più quello di matrice mallarmeana del rapporto col vuoto, ma, al contrario, occupa lo spazio in una fuoriuscita dalla pagina che assume valore costruttivo. Più che contenere il mondo, vuole costruirlo. La parola, così, edifica uno spazio. La dimensione ultima del percorso è quella della messa a disposizione del lettore/fruitore di una realtà immersiva. Installazione e parola poetica risultano unite all’interno di questo processo di edificazione del mondo, ma è un mondo che – offrendosi attraverso una spiccata qualità immersiva – va attraversato, abitato. In questo caso, la “Somma teologica”, oltre ad essere il titolo di un’opera visiva dell’autrice, è anche modello metodologico di rigore formale di un percorso che vede nelle modalità di disposizione del testo nello spazio, l’elemento costitutivo del mondo e del processo esistenziale; il rapporto fra poetica e installazione permane, dunque, anche nel caso di una poetica lineare, a stampa, dove «nel buio diventare luce per passare di taglio, sotto le porte, come un tappeto» è aspetto sintomatico di una parola che si dà come plasticità, si stacca, si fa corpo più spaziale che vocale e il soggetto è immerso in questa dimensione, ancora una volta la attraversa.

L’equilibrio della poesia è indagato in una forma che non ha più a che fare col libro; una serie di parallelepipedi riportano versi poetici, sostenendosi a vicenda, in equilibro, simulando una versificazione libera. La stessa composizione muta quando i parallelepipedi vengono disposti non più uno sopra l’altro, ma per terra o in verticale poggiati alle pareti sancendo la strutturazione di un ritmo nella ripetizione dell’elemento formale; così, anche in “Poesia tempo presente. La parola e il tempo” questa tensione ritmica è ampliata nella misurazione di uno spazio, quale poteva essere la Biblioteca Provinciale N. Bernardini di Lecce in occasione della mostra, che veniva ridescritto, riformulato nella stesura ritmica dei testi sulle pareti, ma anche attraverso il ricorso a proiezioni e materiali diversi dalla carta, quali oggetti in metallo collocati nello spazio espositivo della biblioteca. Qui la parola diviene scena e nella sua fruizione agisce stimolando suggestioni attraverso il ricorso a brevi versi o parole depositate, nude, crude, che rimbalzano da una all’altra, inseguendosi. Il modus operandi dell’autrice, qui e altrove, rimanda alla poesia concreta, a quegli aspetti del minimalismo che in poesia portano ai one-word-poems o alle installazioni in cui il lavoro si concentra sulla resa luminosa della parola, dunque il ricorso ai neon, che ancora una volta isola il testo che nell’assenza di luce nello spazio finisce per creare esso stesso la spazialità, illuminandola, o annullando i caratteri fondamentali della costruzione; il richiamo è al minimalismo, i riferimenti spaziano da Nannucci a Flavin, da Lewitt a Kossuth, o, nel caso della “parola”, da Aram Saroyan (senza la torsione dei suoi neologismi) a Edwin Morgan fino alla qualità immersiva tipica dell’opera di Allen Ruppersberg, del quale però non conserva traccia né dei cromatismi né della dimensione “pubblicitaria” del testo. La parola, come nella poesia concreta, è liberata da ogni orpello sintattico e la natura minimalista della sua cifra “spaziale” conferisce spessore ad una ricerca formale che tende a rivelare il sovrappiù di senso del testo.

Poesia qualepoesia/01: Apertura per salti e altro dire

Poesia qualepoesia/02: Premessa storico-contestuale

Poesia qualepoesia/03: Unità di politica, arte e scrittura. La poesia visiva a Taranto

Poesia qualepoesia/04: Michele Perfetti

Poesia qualepoesia/05: Anni ’60. Ricerche verbo-visive in Puglia

Poesia qualepoesia/06: Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce

Poesia qualepoesia/07: Le microscritture di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/08: Una inesaurita ricerca. L’opera di Dòdaro tra parola e new media

Poesia qualepoesia/09: Franco Gelli. O poesia, o follia

Poesia qualepoesia/10: Antonio Massari. Oh abitare in una rosa di 25 stanze

Poesia qualepoesia/11: Giovanni Valentini. Particolari di una poesia come progetto

Poesia qualepoesia/12: Ilderosa Laudisa. Paesaggio umano

Poesia qualepoesia/13: Francesco Pasca. La singlossia nel racconto

Poesia qualepoesia/14: Vittorio Balsebre. Nel segno dei fotograffiti

Poesia qualepoesia/15: Fernando De Filippi. Arte e ideologia

Poesia qualepoesia/16: Altri luoghi e momenti del verbo-visivo in Puglia

Poesia qualepoesia/17: Oronzo Liuzzi. Elementi di una poetica esistenziale

Poesia qualepoesia/18: Vincenzo Lagalla. La parola come luogo

Poesia qualepoesia/19: Franco Altobelli. Il motivo dell’incognita come matrice

Poesia qualepoesia/20: Antonio Verri. Il corpo che racconta

Poesia qualepoesia/21: Raffaele Nigro. Il parlare sconvolto

Poesia qualepoesia/22: Edoardo De Candia, relazioni liminali del segno

Poesia qualepoesia/23: Lo svuotamento della scrittura. L’asemic writing in Puglia

Poesia qualepoesia/24: Antonio Noia. Geometrie: del segno, della parola

Poesia qualepoesia/25: Francesco S. Dòdaro: dal modulo all’Internet Poetry

Poesia qualepoesia/26: La strada nuova e il Laboratorio di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/27: La scrittura mediterranea di Vittorio Del Piano

Poesia qualepoesia/28: Beppe Piano. Dinamiche variazioni di senso

Poesia qualepoesia/29: Glitch. Appunti per un itinerario pugliese

Poesia qualepoesia/30: Antonio Verri: metropoli, oggetti, altre scritture

Poesia qualepoesia/31: Le scritture di Vincenzo Ampolo e Marilena Cataldini

Poesia qualepoesia/32: Vitantonio Russo l’Economic Art

Poesia qualepoesia/33: Egidio Marullo: la scrittura defigurata

Poesia qualepoesia/34: Beppe Bresolin, elementi di poesia concreta

Poesia qualepoesia/35: I romanzi visivi di Mimmo Castellano

Poesia qualepoesia/36: Cristiano Caggiula: proliferazione di segni e criticità sociali

Poesia qualepoesia/37: Profili: Nuzzolese, Maglione, Corallo, Fanciano, Leo, Buttazzo, Dimastrogiovanni

Poesia qualepoesia/38: Nadia Cavalera, Amsirutuf: enimma

Poesia qualepoesia/39: L’uomo come segno in disordine. Note sull’opera di Cristiano Caggiula

Poesia qualepoesia/40: Vittorino Curci, Inside 1976-1981

Poesia qualepoesia/41: Vittorino Curci, l’allargamento del segno

Poesia qualepoesia/42: Rossana Bucci, il taglio della superficie

Poesia qualepoesia/43: Fernando Bevilacqua, gestoscrittura: l’immagine, il suono, la traccia

Poesia qualepoesia/44: La radice informale nella verbovisualità di Vandagrazia De Giorgi

Poesia qualepoesia/45: Profili: Augieri, Carpentieri, Marrocco

Poesia qualepoesia/46: Sandro Greco e Corrado Lorenzo: La tela bianca

Poesia qualepoesia/47: Profili: Guido Pensato, Vito Capone, Dario Damato, Domenico Carella

Poesia qualepoesia/48: Tracce pugliesi nel gruppo “Le porte di Sibari”

Poesia qualepoesia/49: Profili: Toma, Stasi, Russo, Tolledi

Poesia qualepoesia/49: Profili: Toma, Stasi, Russo, Tolledi

Opera di Fabio Tolledi

Opera di Fabio Tolledi

Rubrica a cura di Francesco Aprile

Un inquadramento quanto mai ampio delle indagini intermediali di area pugliese richiede, oggi, un dialogo fitto con una costellazione di segni, suoni, tecniche che contribuisce a raggruppare figure e pratiche diverse. La parola come materiale diviene segno e suono frammentato all’interno di una generazione che muove i primi passi di “deformazione” del poetico a partire dagli anni Ottanta o, come nel caso di Toma, già dai Settanta. Con Salvatore Toma diventa possibile tracciare una linea fra la poetica e una dimensione collaterale, privata, che ha avuto modo di viaggiare per l’Italia attraverso il canale postale, divenendo dunque assimilabile alle formulazioni della mail art, mantenendo, nel caso del poeta di Maglie, una connessione strettissima fra il gioco ironico mail-artistico e la traiettoria poetica. La giustapposizione fra attività poetica, lineare, e tracciato mail-artistico in Toma procede a partire da un processo di dispersione del soggetto; dove all’esaltazione del dato lirico segue lo svuotamento dello stesso nella natura e/o nella morte come elementi rafforzativi della vita. Alla morte tanto versificata dall’autore segue un ritorno alla vita il quale è preceduto da uno spossessamento del soggetto che sconfina nella totalità della natura e/o della massa inorganica; a partire da ciò, l’autore, restituito a nuova vita, perde i caratteri dell’autoaffermazione lirica, ritorna a nuova vita, sì, ma con occhi diversi: «ci ho messo una croce / e ci ho scritto sopra / oltre al mio nome / una buone dose di vita vissuta. / Poi sono uscito per strada / a guardare la gente / con occhi diversi». Alla natura e alla morte, come elementi divenuti strumenti di liberazione dall’umano e dal sociale, segue la disgregazione del nome. Già il nome, affibbiato alla croce e lì abbandonato, è sintomatico della disgregazione poetico-visiva operata dal Toma “mail artista” irriverente e provocatorio che inviava cartoline in tutta Italia, spesso quasi nell’assenza di una reale intenzione di stringere rapporti letterari con altri autori, ma mosso dalla verve polemica dello sfottò sbeffeggiava autori, editori, critici. Montale, l’undici aprile dell’Ottanta, ammoniva il poeta di Maglie, invitandolo a desistere e abbandonare la strada di una “presunta” calunnia. Nella pratica collaterale del verbovisivo e della mail art ritroviamo in Toma la frantumazione del soggetto o, meglio, dell’identità socialmente istituita. A farne le spese è il nome che viene disgregato e da Salvatore Toma diventa un ironico “-Re Toma” assimilabile all’operazione “A great poet”, dunque al senso della croce, della sepoltura, come annullamento del soggetto lirico e sociale a vantaggio di una affermazione vitale diversa.

Negli anni Ottanta, Carlo Stasi, nato a Berna nel 1960 da genitori salentini, avvia un percorso incentrato sulla materialità sonora della parola poetica, elaborando una rilettura del territorio salentino sulla falsariga di quanto proposto da Apollinaire nei “Calligrammi” dove l’oggetto-simbolo dell’identità francese, la Torre Eiffel, veniva eletto a materiale iconico-letterario filtrandone il dato “mitico” che covava nell’immaginario collettivo. Allo stesso modo Stasi si produce in uno sforzo poetico che se da un lato vede la stesura di opere poetiche, lineari, dall’altro indirizza il proprio fare alla rielaborazione di un immaginario dove la parola, fattasi materia, rielabora in forma di calligramma i luoghi e le atmosfere di un Salento lontano, in cui è possibile rilevare la dimensione bodiniana delle “donne pennute” vestite di nero sulle facce bianche delle case di calce, rese “metafisiche” dai giochi di luci e ombre che si ripercuotono nelle atmosfere dei calligrammi di Stasi.

Roberto Russo, autore e pittore, dal 1979 avvia il suo percorso espositivo in Italia e all’estero, attraverso mostre personali e collettive. Dal 1988 lavora come responsabile di un laboratorio d’arte per diversamente abili. Quello di Russo è un lavoro grafico sul segno calligrafico, il quale, a partire dalle esperienze del Gruppo Forma 1 – sono stringenti i legami con quanto proposto da Russo e la ricerca sul segno condotta da Carla Accardi e Antonio Sanfilippo – appare sullo spazio dell’opera nella stesura ritmica di una serie di grafismi asemantici che, per altra via, assumono valore compositivo, strutturandosi come dei pixel al fine di comporre immagini.

Fabio Tolledi, poeta, regista e direttore artistico di Astràgali Teatro dal 1992 opera sui territori del suono e della messa in azione di una gestualità che è corpo e ritmo vocale e sintassi frammentata del discorso. Nel 2008 Francesco S. Dòdaro idea e cura la collana di opere verbovisive “Carte letterarie” edita da “Astràgali – Eufonia Multimedia” e curata assieme allo stesso Tolledi. Si legge dal comunicato stampa per il lancio dell’iniziativa che «Astràgali Teatro e Francesco Saverio Dòdaro lanciano una nuova collana editoriale, che prende il titolo di Carte Letterarie, una collana ideata e fondata da Francesco Saverio Dòdaro e curata da Dòdaro e Fabio Tolledi, per le edizioni Astràgali-Eufonia Multimedia. Carte Letterarie è un  innovativo lavoro editoriale, che comprende 24 opere di poesia visuale di 24 artisti internazionali, in formato di cartolina, contenute in un cofanetto, che costituiscono un prezioso oggetto d’arte. Come scrive Francesco Saverio Dodaro, scrittore, poeta, fondatore del Movimento Genetico nel ’76 e ideatore di diversi giornali e collane tra cui Ghen arte,  Scritture, Spagine. Scritture infinite, Compact Type. Nuova narrativa, Diapositive, Wall Word, Pieghe narrative, questa collana nasce come “un modesto riparo per ascoltare il respiro dell’altrove, del sogno, la voce del disperso, l’urlo della resistenza poetica”. La scelta delle opere da editare, per Fabio Tolledi, risiede nell’urgenza di interrogarsi sullo stato attuale della ricerca visuale  e poetica a livello nazionale e internazionale, dando voce e segno alle opere di artisti contemporanei e mantenendo uno sguardo trasversale, aperto, rivolto ancora una volta al Mediterraneo. Le cartoline nascono da uno stringente dialogo tra arte visuale e scrittura e trovano una matrice nella cosiddetta Mail Art. Ogni cartolina d’artista di Carte Letterarie presenta sul fronte l’opera, in mono o policromia, e sul retro in monocrome, i dati editoriali  e dell’opera (autore, titolo, edizione) e il suo codice Dewey. Da sempre utilizzato da Dòdaro nella sua lunga ricerca, il codice Dewey consente l’uso di un linguaggio di archiviazione internazionalmente riconosciuto, che dà conto del respiro internazionale dell’iniziativa». “L’estate si è chiusa” è l’opera di Tolledi pubblicata nella collana; si tratta di un lavoro del 1994 dove la componente poetica risulta inscindibile dall’elemento corporeo che non si presenta nella sola materialità del segno e nell’azione del gesto, ma nel suo essere corpo si produce già in fiato. Si tratta però di un fiato che è frammento, di un suono frantumato che procede parallelamente ai percorsi del gesto, del segno che è traccia prima che ordine linguistico istituito.

Poesia qualepoesia/01: Apertura per salti e altro dire

Poesia qualepoesia/02: Premessa storico-contestuale

Poesia qualepoesia/03: Unità di politica, arte e scrittura. La poesia visiva a Taranto

Poesia qualepoesia/04: Michele Perfetti

Poesia qualepoesia/05: Anni ’60. Ricerche verbo-visive in Puglia

Poesia qualepoesia/06: Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce

Poesia qualepoesia/07: Le microscritture di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/08: Una inesaurita ricerca. L’opera di Dòdaro tra parola e new media

Poesia qualepoesia/09: Franco Gelli. O poesia, o follia

Poesia qualepoesia/10: Antonio Massari. Oh abitare in una rosa di 25 stanze

Poesia qualepoesia/11: Giovanni Valentini. Particolari di una poesia come progetto

Poesia qualepoesia/12: Ilderosa Laudisa. Paesaggio umano

Poesia qualepoesia/13: Francesco Pasca. La singlossia nel racconto

Poesia qualepoesia/14: Vittorio Balsebre. Nel segno dei fotograffiti

Poesia qualepoesia/15: Fernando De Filippi. Arte e ideologia

Poesia qualepoesia/16: Altri luoghi e momenti del verbo-visivo in Puglia

Poesia qualepoesia/17: Oronzo Liuzzi. Elementi di una poetica esistenziale

Poesia qualepoesia/18: Vincenzo Lagalla. La parola come luogo

Poesia qualepoesia/19: Franco Altobelli. Il motivo dell’incognita come matrice

Poesia qualepoesia/20: Antonio Verri. Il corpo che racconta

Poesia qualepoesia/21: Raffaele Nigro. Il parlare sconvolto

Poesia qualepoesia/22: Edoardo De Candia, relazioni liminali del segno

Poesia qualepoesia/23: Lo svuotamento della scrittura. L’asemic writing in Puglia

Poesia qualepoesia/24: Antonio Noia. Geometrie: del segno, della parola

Poesia qualepoesia/25: Francesco S. Dòdaro: dal modulo all’Internet Poetry

Poesia qualepoesia/26: La strada nuova e il Laboratorio di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/27: La scrittura mediterranea di Vittorio Del Piano

Poesia qualepoesia/28: Beppe Piano. Dinamiche variazioni di senso

Poesia qualepoesia/29: Glitch. Appunti per un itinerario pugliese

Poesia qualepoesia/30: Antonio Verri: metropoli, oggetti, altre scritture

Poesia qualepoesia/31: Le scritture di Vincenzo Ampolo e Marilena Cataldini

Poesia qualepoesia/32: Vitantonio Russo l’Economic Art

Poesia qualepoesia/33: Egidio Marullo: la scrittura defigurata

Poesia qualepoesia/34: Beppe Bresolin, elementi di poesia concreta

Poesia qualepoesia/35: I romanzi visivi di Mimmo Castellano

Poesia qualepoesia/36: Cristiano Caggiula: proliferazione di segni e criticità sociali

Poesia qualepoesia/37: Profili: Nuzzolese, Maglione, Corallo, Fanciano, Leo, Buttazzo, Dimastrogiovanni

Poesia qualepoesia/38: Nadia Cavalera, Amsirutuf: enimma

Poesia qualepoesia/39: L’uomo come segno in disordine. Note sull’opera di Cristiano Caggiula

Poesia qualepoesia/40: Vittorino Curci, Inside 1976-1981

Poesia qualepoesia/41: Vittorino Curci, l’allargamento del segno

Poesia qualepoesia/42: Rossana Bucci, il taglio della superficie

Poesia qualepoesia/43: Fernando Bevilacqua, gestoscrittura: l’immagine, il suono, la traccia

Poesia qualepoesia/44: La radice informale nella verbovisualità di Vandagrazia De Giorgi

Poesia qualepoesia/45: Profili: Augieri, Carpentieri, Marrocco

Poesia qualepoesia/46: Sandro Greco e Corrado Lorenzo: La tela bianca

Poesia qualepoesia/47: Profili: Guido Pensato, Vito Capone, Dario Damato, Domenico Carella

Poesia qualepoesia/48: Tracce pugliesi nel gruppo “Le porte di Sibari”

Poesia qualepoesia/48: Tracce pugliesi nel gruppo “Le porte di Sibari”

Opera di F. S. Dòdaro

Opera di F. S. Dòdaro

Rubrica a cura di Francesco Aprile

Fondato nel 1990 dal poeta napoletano Luciano Caruso assieme al calabrese Carmine Cianci, il gruppo “Le porte di Sibari” ha rappresentato, tramite una cospicua attività espositiva e editoriale, l’altra faccia della medaglia di quel discorso poetico che in Italia vedeva asserragliarsi le fila teorico-pratiche di quanti promuovevano – in ripresa, oltre che nella forma di un taglio verticale nella tradizione del nuovo (e non), delle ricerche degli anni Cinquanta/Sessanta – una indagine vigorosa di tipo materialistico sui linguaggi, dalla poesia alle forme derivate ormai mature per occupare un campo autonomo proseguendo il cammino inesorabile di quelle scritture che, dal ventaglio delle proposte poetiche del primo Novecento in poi, promuovevano l’uscita della parola poetica dal libro e il ricorso a linguaggi provenienti dall’extra-letterario. È dopo l’irruzione dei neo-orfismi degli anni Settanta/Ottanta che, già dagli Ottanta, si profilava nel dibattito italiano il recupero di istanze sperimentali in risposta alla deriva estetizzante di certa poesia. Mentre autori provenienti dalla scena degli anni Cinquanta e/o Sessanta proseguivano sui versanti di messa in discussione dei linguaggi, l’estetizzazione, anche propria del capitalismo rampante, la quale non si risolveva né nella circolazione dei capitali né nell’avvento della merce, andava fondando il suo mondo in modalità di approccio ad esso che si ripercuotevano negli orizzonti di utilizzo dei linguaggi. Lo statuto ideologico del neosperimentalismo restava vivo in quella cerchia di autori che lo avevano promosso e individuavano, nei termini di una contestazione dello statuto egemonico borghese, come necessaria la destituzione dei valori espressivi delle forme linguistiche, appunto, borghesi. “Rosso corpo lingua” (1977), di Pagliarani, situava già la questione di una materialità del testo dove al corpo-suono faceva eco la presenza di una gestualità del darsi della parola, dunque il movimento del gesto come valore compositivo del fiato, del suono, di un testo che trovava nella fisicità il suo elemento primario. In queste circostanze nasceva il dibattito denominato delle “Tesi di Lecce”, la lunga carrellata di interventi accolti dall’Immaginazione di Manni, dunque l’avvento dei nuovi poeti del Gruppo 93.

Non estraneo a questo sentire, Luciano Caruso risultava impegnato sin dagli anni Sessanta nei meandri di un fare poesia in cui il segno, liberato dalla gabbia saussuriana della connettività fra significante e significato, si muoveva libero, arbitrario, singolare e materico. Il suo discorso, innestato sui dettami di un paralettrismo, verteva dunque sulla dinamicità del gesto poetico, la quale poteva fissare su carta solo una minima parte dell’esuberanza creatrice dell’azione poetica. Impegnato sin dall’inizio della sua avventura letteraria nella formazione e partecipazione a gruppi, oltre che nella promozione di azioni collettive, Caruso recuperava la necessità, nel 1990, sintomaticamente dopo lo sfacelo sociale degli Ottanta, del fare “gruppo”, fondando con Carmine Cianci “Le porte di Sibari” e accompagnato da una serie di sperimentatori, provenienti anche loro dalle trincee della ricerca dei Sessanta/Settanta, avvezzi alla promozione di azioni corali, alla fondazione di gruppi, alla comunanza di intenti, alla condizione sinergica delle poetiche. In un testo del 1990, poi raccolto nel volume “Sperimentalismo a Napoli” (Belforte Editore, 1991), l’autore napoletano enucleava, attraverso il ricorso metaforico all’immagine delle porte di Sibari, i punti salienti della proposta del gruppo: «Le porte di Sibari sono come quelle dell’apocalisse. Si sa per certo che ci sono, ma se ne è perduta ogni traccia. Così, il risultato che importa qui ed ora è che non si possono aprire né chiudere. La loro è un’esistenza squisitamente mentale. Allo stesso modo, che l’avanguardia sia mai esistita o sia appena morta, in questo volgere di millennio così “pacificato”, è questione che non richiede una soluzione e, dalla parte dell’avanguardia, importa poco stabilirlo, una volta accertata la sua vocazione fallimentare, “il suo instancabile darsi pur sapendo di perdere”». Ora, l’immagine delle porte di Sibari, di cui si è persa ogni traccia, evoca l’abbattimento degli steccati fra le discipline che sia Caruso, sia gli altri autori chiamati in causa nel gruppo, hanno da sempre affrontato. L’assenza delle porte è, di per sé, già una presenza, uno sforzo mnemonico del richiamare dall’oblio, è quel centro del discorso blanchotiano che non bisogna raggiungere e che la ricerca deve sempre tentare, accostare, scorrendo, inesorabilmente, da un capo all’altro del campo, dei campi, d’azione, sancendo proprio la libertà dell’azione, di un gesto che nell’assenza delle porte, cercandole, forse le attraversa. Nel 1992, con il testo di presentazione delle “cartelle” intitolate “Le porte di Sibari” e date alle stampe da Belforte Editore, Caruso esprimeva la necessità di un definirsi ideologicamente, perché tale era, negli anni Novanta “pacificati”, l’esperienza corale avanzata dall’autore: «Definirsi. Ma trovare una situazione implica ricerca ed è cosa ben diversa dal trovarsi in situazione, che al più può essere il risultato di una volontà di coinvolgimento. E se, con mossa laterale, a trovare si sostituisse l’abusato ma più chiaro termine “sperimentare”? […] Tensione creativa e materia del contendere sostanziano ancora la sperimentazione e attualizzano o rendono inattuale la perenne volontà alchemica di tradurre in segni la materia e mutare i segni e l’impulso stesso in materia».

A questa ennesima avventura corale nata negli ambiti della verbovisualità partecipano con slancio creativo autori dello scenario pugliese come Francesco Saverio Dòdaro, Franco Gelli, Enzo Miglietta, i quali sin dagli anni Settanta avevano avuto modo di fondare gruppi e promuovere iniziative espositive e/o performative. Enzo Miglietta, nel 1971 aveva fondato a Novoli il Laboratorio di Poesia promuovendo incontri, dibatti e mostre internazionali di poesia visiva. Franco Gelli, vicino alle attività della Cooperativa Punto Zero di Taranto, di cui era uno degli animatori principali, si faceva promotore dal canto suo di tutta una serie di iniziative a Lecce, lanciando mostre, progetti collettivi (si ricordi il progetto di mail art sulle tracce del poeta Vittorio Bodini) e lavorando in sinergia con altri autori. Francesco Saverio Dòdaro dal 1976, con il movimento di Arte Genetica, ad oggi, ha promosso gruppi, riviste e attività editoriali nel segno della coralità agendo da collante e volano su un territorio, come quello salentino, disgregato da individualismi e provincialismi beceri, tessendo le fila di un discorso attento al territorio ma proiettato sempre nel mondo, intrattenendo, di fatto, importanti rapporti con l’avanguardia internazionale. Di vecchia data, al momento della fondazione delle porte di Sibari, erano i rapporti dei tre pugliesi con Luciano Caruso, il quale riconosceva l’istituzione di un vero e proprio sodalizio fra lui e Dòdaro, sin dagli anni Settanta, e ribattezzato, proprio dal poeta napoletano, il “sodalizio Caruso-Dòdaro”.

Nel solco dell’indagine di tipo materialistico sulla parola si collocano le esperienze dei tre autori pugliesi. Il percorso di Miglietta, all’interno del gruppo carusiano, si colloca in continuità programmatica con quanto avviato dall’autore sin dagli anni Settanta, dunque sul tracciato delle microscritture che mostra come la componente materica del poeta-geometra si strutturi per uno slancio iniziale simile a quello della poesia concreta, dove la materialità della parola è tensione manipolatoria dell’oggetto linguistico che ritrova nelle microscritture esigenze di visualità e rappresentazione differenti dal concretismo; dunque la rappresentazione, geometrizzata, ha a che vedere con la riformulazione dello spazio e l’azione diretta dell’attore sociale come protagonista della propria esistenza non più, o, quantomeno, non soltanto con la riformulazione dello spazio letterario dell’opera.

La proposta di Gelli è in continuità estetica con il discorso che l’autore ha sviluppato negli anni Settanta/Ottanta all’interno del movimento genetico dòdariano; una poesia visiva che nei contrasti e nella dispersione delle forme, nel trapasso da persona a cosa e viceversa, si fa promotrice di una matericità fenomenologica dove il trapasso degli elementi è nutrito sulla pagina nella forma di un “evento”, e nelle sgranature eccessive rivela i risvolti del reale e di quanto vada smarrito nella percezione.

Le operazioni dòdariane nel gruppo “Le porte di Sibari” si situano in un preciso ambito dell’operatività dell’autore che se da un punto di vista editoriale era intento in quegli anni nel superamento dell’oggetto-libro, ideando una serie di iniziative corali e internazionali, per qualità della proposta e spregiudicatezza della ricerca, da un punto di vista della verbovisualità struttura già da qualche anno una serie di opere dallo spiccato senso materico, dove spessori e profondità differenti connotano il tessuto verbovisivo secondo i tracciati del motérialisme lacaniano, dunque del materialismo del significante, della lettera, al punto che il rigore materico-formale si dà in profondità esistenziale. Dall’altro lato della verbovisualità di Dòdaro, pubblicata e/o esposta nell’ambito delle porte di Sibari, si trova il ricorso al capovolgimento psicoanalitico che l’autore già da tempo sviluppava in poesia lineare e visiva, non detournando immagini consuete, ma destabilizzandole restituendole ad un valore originario che veniva indagato a partire dalle trame storiche degli autori che andava via via a capovolgere.

Poesia qualepoesia/01: Apertura per salti e altro dire

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Poesia qualepoesia/03: Unità di politica, arte e scrittura. La poesia visiva a Taranto

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Poesia qualepoesia/05: Anni ’60. Ricerche verbo-visive in Puglia

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Poesia qualepoesia/08: Una inesaurita ricerca. L’opera di Dòdaro tra parola e new media

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Poesia qualepoesia/13: Francesco Pasca. La singlossia nel racconto

Poesia qualepoesia/14: Vittorio Balsebre. Nel segno dei fotograffiti

Poesia qualepoesia/15: Fernando De Filippi. Arte e ideologia

Poesia qualepoesia/16: Altri luoghi e momenti del verbo-visivo in Puglia

Poesia qualepoesia/17: Oronzo Liuzzi. Elementi di una poetica esistenziale

Poesia qualepoesia/18: Vincenzo Lagalla. La parola come luogo

Poesia qualepoesia/19: Franco Altobelli. Il motivo dell’incognita come matrice

Poesia qualepoesia/20: Antonio Verri. Il corpo che racconta

Poesia qualepoesia/21: Raffaele Nigro. Il parlare sconvolto

Poesia qualepoesia/22: Edoardo De Candia, relazioni liminali del segno

Poesia qualepoesia/23: Lo svuotamento della scrittura. L’asemic writing in Puglia

Poesia qualepoesia/24: Antonio Noia. Geometrie: del segno, della parola

Poesia qualepoesia/25: Francesco S. Dòdaro: dal modulo all’Internet Poetry

Poesia qualepoesia/26: La strada nuova e il Laboratorio di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/27: La scrittura mediterranea di Vittorio Del Piano

Poesia qualepoesia/28: Beppe Piano. Dinamiche variazioni di senso

Poesia qualepoesia/29: Glitch. Appunti per un itinerario pugliese

Poesia qualepoesia/30: Antonio Verri: metropoli, oggetti, altre scritture

Poesia qualepoesia/31: Le scritture di Vincenzo Ampolo e Marilena Cataldini

Poesia qualepoesia/32: Vitantonio Russo l’Economic Art

Poesia qualepoesia/33: Egidio Marullo: la scrittura defigurata

Poesia qualepoesia/34: Beppe Bresolin, elementi di poesia concreta

Poesia qualepoesia/35: I romanzi visivi di Mimmo Castellano

Poesia qualepoesia/36: Cristiano Caggiula: proliferazione di segni e criticità sociali

Poesia qualepoesia/37: Profili: Nuzzolese, Maglione, Corallo, Fanciano, Leo, Buttazzo, Dimastrogiovanni

Poesia qualepoesia/38: Nadia Cavalera, Amsirutuf: enimma

Poesia qualepoesia/39: L’uomo come segno in disordine. Note sull’opera di Cristiano Caggiula

Poesia qualepoesia/40: Vittorino Curci, Inside 1976-1981

Poesia qualepoesia/41: Vittorino Curci, l’allargamento del segno

Poesia qualepoesia/42: Rossana Bucci, il taglio della superficie

Poesia qualepoesia/43: Fernando Bevilacqua, gestoscrittura: l’immagine, il suono, la traccia

Poesia qualepoesia/44: La radice informale nella verbovisualità di Vandagrazia De Giorgi

Poesia qualepoesia/45: Profili: Augieri, Carpentieri, Marrocco

Poesia qualepoesia/46: Sandro Greco e Corrado Lorenzo: La tela bianca

Poesia qualepoesia/47: Profili: Guido Pensato, Vito Capone, Dario Damato, Domenico Carella

Poesia qualepoesia/47: Profili: Guido Pensato, Vito Capone, Dario Damato, Domenico Carella

Opera di Guido Pensato

Opera di Guido Pensato

Rubrica a cura di Francesco Aprile

A partire dagli anni ’80, il fermento manifestatosi a Foggia nel decennio precedente, consente lo sviluppo di nuovi scenari che hanno poi comportato tutta una serie di mostre di poesia visiva. Centrale è per l’area del foggiano la figura di Guido Pensato. Nel secondo ‘900, Foggia è interessata da un fermento che porta alla nascita di una serie di spazi associativi ed espositivi, fra questi: Circolo Bertolt Brecht, Teatro Club, Circoli del Cinema, Laboratorio Artivisive, Coordinamento per la comunicazione e le arti visive, Art’inFabrica. La mostra “Poesia visuale/nuova scrittura”, a cura di Guido Pensato, svoltasi nel 1980 presso il Laboratorio Artivisive evidenzia questa tendenza contribuendo ad introdurre e articolare sul territorio i nuovi linguaggi di area poetico-visuale.
L’indicazione “nuova scrittura” ad accompagnare i termini precedenti, “Poesia visuale”, contribuisce a connotare l’operazione-mostra proposta da Pensato con una più fluida esplicazione scritturale, dove il concetto stesso di scrittura, e parola, risulta esteso nel coinvolgimento di pratiche e materiali collaterali che allargano il campo d’azione e, dal collage, procedono oltre, verso quei litorali della nuova poesia elaborati da Ugo Carrega il quale nel solco e, anche, internamente alle operazioni targate Martino Oberto, dunque “Ana Eccetera”, aveva già contribuito ad avviare un discorso altro per la poesia visiva, affrontando in maniera radicale le tematiche dell’extraletterario e dell’azione poetica nei termini di pensiero e parola capaci di guardare a libertà di movimento, flusso grafico, anarchismo letterario, autorale, tonalità e nuclei sonori, semanticità naturale, intellettuale, formale e grafica, forme aperte o chiuse, colore come rafforzativo-emotivo, la pagina bianca come emozione pura, tonalità cromatica, flusso sonoro, combinandone gli elementi nell’alveo di una proposta di allargamento del settore autorale.
Guido Pensato, foggiano, è stato prima vicedirettore, quindi direttore della Biblioteca Provinciale e del Sistema bibliotecario di Foggia, componente del primo Consiglio nazionale dei beni culturali (1976-81) e del Direttivo nazionale dell’Associazione italiana biblioteche (1975-81). A Foggia, a partire dagli anni Sessanta ha preso parte all’ideazione delle iniziative di alcuni gruppi della sua città, quali Circolo Bertolt Brecht, Teatro Club, Circoli del Cinema, Laboratorio Artivisive ecc. Nel 1981, assieme ad alcuni artisti riuniti attorno al Laboratorio Artivisive (Matteo Accarrino, Vito Capone, Michele Chiapperino, Sergio De Sandro Salvati, Augusto De Stasio, Cristiano Lella, Franco Tretola) partecipa all’Expoarte di Bari, dove presenta l’opera intitolata “Alfabeto” con la quale, intendendola come un manifesto, ripensa l’alfabeto nei termini di un dover “sembrare le forme del mondo”. Lo sguardo di Pensato affonda in pulsioni ludico-civili, sconfinando nella contaminazione propria dell’area “simbiotica” della poesia visiva, lavorando con materiali fra i più disparati i quali concorrono nel suo percorso a tracciare gli itinerari di una poesia che si dà come installazione, quasi paesaggio visivo fra sperimentazione e mimetismo. L’indagine condotta da Pensato, collocabile sui versanti della “nuova scrittura”/”scrittura simbiotica”, si produce in un mix di scrittura e materia dove l’accentuazione della materia è caratteristica che non procede solo dal dato gestuale della grafia e dal materializzarsi dell’inchiostro/vernice, ma vive nella compresenza di parola, alle volte calligrafica altre ancora mutuata dalla comunicazione giornalistica, e oggetto dove il mimetismo della parola è nel suo essere già oggetto, materia manipolabile, ma in una qualità differente da quanto, ad esempio, avviene nella materialità della parola nella poesia concreta; qui il libro è ridotto alla violenza grezza della deturpazione che acquista un senso estetico-informale e diviene quasi parola-scultura, modellata nella sua interazione con lo spazio, dove il suo intervento nello spazio è a sua volta interventato dal contesto. Il senso dismesso degli utensili da lavoro, la ruggine, la deformazione degli attrezzi, il fil di ferro che avvolge il libro, la parola, diventano materiali di una scrittura-rete che intreccia i fili della parola “cultura” con la manualità del fare e riconducono la parola stessa alla quotidianità; qui si realizza il doppio vincolo di una parola che agisce il contesto in cui è inserita e sua volta è agita dalla sua contestualizzazione. Per altra istanza l’uso di superfici trasparenti sul quale stendere il flusso calligrafico della scrittura mira alla resa installativa, nonché mimetica, della parola poetica che risulta attraversata dal paesaggio, diventando essa stessa paesaggio, elemento attraversato, luogo di transito. La parola, in ulteriore veste, diventa povera, nell’accezione poverista come qualità presa in prestito dal mondo dell’arte, dipanata su materiali grezzi e incastonata all’interno di sagome umane si accende, diventando corpo, forma, dimensione spaziale.

Vito Capone, pittore, autore di libri d’artista, nato a Roma nel 1935 da genitori salentini, ha compiuto studi artistici a Napoli. Ha insegnato Tecniche pittoriche presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia, di cui è stato direttore dal 1988 al 1991. Dalla fine degli anni Cinquanta partecipa a mostre collettive e realizza personali in tutta Italia, da Napoli a Roma, da Foggia a Milano, da Lecce a Firenze, e poi Brescia, Noci, Trento, Rovereto ecc., ma non manca di esporre le sue opere all’estero come quando, nel 1970, espone a Barcellona nell’ambito del IX Premio Internazionale Mirò (prendendovi ancora parte in altre edizioni), e poi a Pamplona nel 1977 e nello stesso anno a San Francisco, Madrid (1981), Budapest (1985) sono solo alcune delle mostre che concorrono a formare l’itinerario espositivo dell’autore. Nel 1987, il critico Filiberto Menna scriveva: «C’è una esperienza dell’arte che ricorre di frequente nelle vicende artistiche contemporanee, una esperienza orientata verso procedimenti di riduzione linguistica, spinti a volte fin quasi a una sorta di grado zero, di “un grado zero della scrittura”. Si tratta di un fenomeno di smaterializzazione dei mezzi espressivi, che si sottraggono non solo alle richieste della rappresentazione ma anche, a volte, alla ricchezza coinvolgente del colore. […] Sono i segni appunto dell’arte di Vito Capone, che da molti anni ormai rimane fedele alla linea artistica della riduzione, sospinta ancora una volta fin quasi al limite dello zero». Il percorso di Vito Capone sconfina con agilità dalla pittura in un dialogo serrato con le correnti del libro d’artista e della poesia visiva, dove si registra l’ingresso in punta di piedi della scrittura, la quale è disarmata, immobilizzata, resa a-scrittura in un agglutinamento materico che produce eccessi di tattilità e materialità i quali concorrono a restituire, nel bianco su bianco adottato da Capone, la scrittura ad una dimensione di traccia. Le pagine, bianche, impresse in una materia ipertrofica, dominante ed espressiva, accolgono in rilievi appena accennati una pastosità della materia che si dipana in forma di scrittura asemantica, che sfugge un significato socialmente istituito ed ogni forma di alfabetizzazione e ritrova, anzi, una sua grammatica nella sola esaltazione della materia, nel senso manuale del fare. I libri di Capone diventano così dei libri da guardare e trovano ambiti di reciprocità con l’operato di Maria Lai, anche nel comune ricorso a tessuti, nella fondamentale differenza dell’abisso materico che separa i due percorsi; quello di Capone è infatti un lavoro del corpo sul corpo in cui se da un lato avviene una “rinuncia”, per dirla con Menna, ai mezzi espressivi, è pur vero che tale rinuncia è indirizzata alla smaterializzazione di mezzi consueti, quali il colore che in una civiltà dell’immagine è fra le componenti dominanti, dall’altro, è proprio la densità delle forme scritturali appena accennate, in concomitanza con un agglutinamento che spinge la materia all’accesso a rendere espressiva questa profondità della materia adottata dall’autore.

Peculiarità che sembra emergere dallo scenario foggiano è quella di un carattere “immersivo” dell’opera all’interno di un paesaggio e/o di uno spaccato materico indefinito che risponde, come nel caso di Capone, ad un territorio della geometrizzazione della scrittura. Laddove una realtà può essere geometrizzata, che sia paesaggio o scrittura, allora deve esistere un qualcosa di indefinito, sembrano riecheggiare le operazioni di questi autori, quasi chiamando in causa il tessuto teorico anassimandreo. Da ciò non differisce l’opera di Dario Damato. Nato a Barletta nel 1937, ha operato a Foggia fino al 2013, anno della morte. Ha allestito oltre duecento mostre, in Italia e all’estero, ottenendo riconoscimenti importanti, fra questi quello Senato Italiano (1973) e del Presidente della Repubblica (1974). Hanno scritto di lui Palma Bucarelli, Filiberto Menna, Achille Bonito Oliva, Luciano Caramel, Lamberto Pignotti ecc., mentre nel 1967 il regista Massimo Mida gli ha dedicato un lungometraggio, poi premiato a Cannes. Ha diretto l’Accademia di belle arti di Foggia. Pittore, ha saputo operare una personale sintesi fra pittura e correnti verbovisive. Il suo linguaggio segnico-espressivo compatta sulla superficie elementi di una pittura espressionista e al contempo segni calligrafici, parole e paesaggi. Il tessuto paesaggistico è accennato, figurato in maniera veloce, ma non rinuncia alla spigolosità geometrica dei monti dauni che sembrano emergere da un fondo indefinito in cui trionfa il colore. Su tutto si muovono, quasi fossero ulteriori elementi del paesaggio, rapidissimi segni calligrafici sulla falsariga di elementi propri del graffitismo e al paesaggio naturale segue la tessitura di un paesaggio urbano e/o proprio del mondo della comunicazione, con immagini e accenni di parole e pagine che si danno impercettibili, ricoperti dal colore; si situano al di sotto dello sfondo, della campitura, sancendo la presenza di uno sfondo dello sfondo, dove alla geometria dei monti segue, dietro, l’indeterminato del colore, dello sfondo, sul cui retro, si stagliano, in trasparenza, sfondo dello sfondo, gli elementi della comunicazione pubblicitaria, giornalistica, i quali diventano paesaggio, rumore, riverbero continuo. I paesaggi verbovisivi di Damato fondono il paesaggio naturale con la comunicazione, la parola e il graffitismo, elaborano una poetica del colore e del segno che ricorda all’osservatore quanto ogni elemento sia tale perché raccolto, o accolto, all’interno di una prospettiva linguistica. In particolare, l’afflato segnico di Damato effettua una convergenza fra il graffitismo, la poesia visiva e i segni del territorio foggiano, primi fra tutti gli elementi incisi sulle stele Daunie, costruendo una poetica dei luoghi capace di intercettare dimensione storica e contemporaneità.

Domenico Carella (Foggia 1976-2016) ha effettuato studi artistici nella sua città presso l’Istituto d’Arte Perugini e in seguito presso l’Accademia di Belle Arti, dove ha concluso il suo percorso di studi con una tesi dal titolo “Tempo come visione”. Nel 2008, dopo essersi trasferito a Milano, ha conseguito un master curatoriale in “Landscape design” presso l’Accademia di Brera. Ha inoltre frequentato lo studio di Giuliano Mauri e intrattenuto rapporti con Alberto Garutti, Stefano Arienti, Paolo Rosa (Studio Azzurro). Artista visivo, ha sperimentato l’utilizzo di oggetti all’interno di installazioni. Sui piani della verbovisualità l’opera di Carella assume le coordinate del collage di parole, laddove l’autore si prodiga nella costruzione di tappeti verbali denominati “Paesaggi verbali” nel segno della ricerca di Nanni Balestrini; non è un caso che il nome scelto, “Paesaggi verbali”, sia un prestito dalla florida ricerca di Balestrini. Proprio come il poeta del Gruppo 63, la produzione di Carella mostra la costruzione di strati di parole, i quali concorrono a sancire il flusso della comunicazione seppure nelle sconnessioni che derivano dall’eccesso di parole. Questi paesaggi, quasi campiture di parole, drappeggi di linguaggio, escono poi dagli spazi deputati all’opera per rivestire oggetti e altri materiali estranei ad una dimensione paesaggistica. Ciò comporta l’accettazione dello statuto pervasivo dei linguaggi della comunicazione e la conseguente messa in opera di questa “invasione”.

Poesia qualepoesia/46: Sandro Greco e Corrado Lorenzo: La tela bianca

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Rubrica a cura di Francesco Aprile

L’operazione “La tela bianca” condotta da Sandro Greco e Corrado Lorenzo, ai limiti della commistione dei linguaggi artistici, si colloca su quei piani di un processo comportamentale volto al superamento stesso dell’operazione “commistione”, situando l’azione e/o il suo spazio in un grado zero dei segni di estrazione artistico-letteraria che non riguardano il bianco su bianco del “suprematismo” di area sovietica, dunque non la posizione assunta da Malevič riguardo il superamento dell’opera risolta nell’essenza della visione, bensì una tipologia di lavoro che guarda allo scarto stesso fra segno e segno, nonché fra opera e opera, autore e autore, fruitore e fruitore.

Sandro Greco e Corrado Lorenzo, ribattezzati dal critico Pietro Marino i “Santi medici dell’avanguardia pugliese”, hanno contribuito negli anni Sessanta all’introduzione delle dinamiche della land art e dell’arte comportamentale in Puglia, avviando una pratica rigorosa quanto aperta a stimoli extrartistici capaci di intercettare criticità sociali e ambientali risolvendole in azioni dal forte impatto critico e sensazionale.

Sandro Greco è nato a San Pietro Vernotico (Brindisi) nel 1928, laureato in Farmacia, ha svolto attività di collaboratore scientifico per alcune case farmaceutiche ed ha insegnato chimica nelle scuole di Brindisi e Lecce. Pittore, performer, artista concettuale, opera in un primo momento, dal 1948 al 1966, in area figurativa, sposando negli anni Sessanta le dinamiche dell’arte povera e concettuale; di questo periodo sono i “Fiori di carta” ed i “Rapporti prossemici”. All’interno della sua opera pittorica, nonché di libri d’artista, è forte l’introduzione di inserti calligrafici ai quali affianca il ricorso al “simbolo” come grado evocativo dell’esplicazione scritturale in un mix di parola e concetto che trova nella preponderanza del colore e della sua materia il legamento principale degli elementi in opera.

Corrado Lorenzo è nato nel 1926 ad Arnesano, vive a Novoli, in provincia di Lecce; laureatosi in medicina ha svolto una intensa attività di ricerca artistica lavorando sui versanti pittorici, ma anche dell’arte comportamentale e ambientale. Negli anni Sessanta si avvicina alla land art con i suoi “Segni sulla sabbia”, mentre fonda nel 1979 a Lecce l’Associazione culturale Piccolo Museo costituendo un importante Archivio Internazionale di Arte Contemporanea stabilendo proficui legami con Joseph Beuys, Schifano, Rotella, Boetti ecc., oltre che epistolari anche espositivi. È molto intensa l’attività organizzativa dell’autore, tanto che negli anni ’80 chiama a raccolta nel Salento i graffitisti americani A-One, Rammelzee, Daze, Phase 2, Toxic; a testimonianza di ciò restano le pitture sulla casa-studio dell’autore. Con Sandro Greco e Toti Carpentieri fonda a Novoli nel 1968 il “Centro ricerche estetiche”. Entrambi gli autori, i Santi medici dell’avanguardia pugliese, hanno aderito nel Settantasei al movimento Arte genetica fondato da Francesco S. Dòdaro.

Quella della tela bianca è un’azione predisposta da Sandro Greco e Corrado Lorenzo nel 1970 ad uso e consumo del pubblico in una confondibilità dei ruoli che non si esaurisce nel capovolgimento del fruitore in autore, ma procede in uno scambio continuo di azione e fruizione dove ad ogni intervento corrisponde una fruizione con una conseguente liberazione estetica. Il tutto è storicizzato da un piccolo catalogo edito nel 1970 da Adriano Spatola per le Edizioni Geiger che reca il titolo di “Interventi 2”. A completare la pubblicazione ci pensano una nota di Gianni Jacovelli e una prefazione dello stesso Spatola. Si legge dalla nota di Jacovelli, datata al diciotto maggio del Settanta, che «Sandro Greco e Corrado Lorenzo hanno predisposto per l’uso del pubblico, una kermesse artistico-culturale di nuovo genere, ironico e significativo: una serie di tele bianche per gli interventi più diversi. Si vogliono creare così situazioni interpersonali, originali e vive, che l’artista, o (come in questo caso) gli artisti si accontentano di predisporre, di stimolare. È un modo di fare arte in cui emergono motivazioni di varia provenienza e significazione: la spersonalizzazione dell’operatore e l’invito alla partecipazione, lo stimolo al fare autonomo e il tentativo di coinvolgere direttamente il pubblico con un’azione di tutto rispetto, com’è quella del dipingere. Adriano Spatola, che ha profondamente inteso il valore dell’operazione, ne ha voluto assumere la paternità. Massafra, centro culturale di avanguardia ormai collaudato, è stato testimone di questo nuovo tipo di intervento, che verrà ripetuto a Roma nel prossimo mese di giugno».

Il catalogo, ripubblicato da Maurizio Spatola in versione pdf e disponibile al download sul prezioso archivio online dell’autore, è arricchito ora da una nota dello stesso Maurizio Spatola il quale rileva come suo fratello Adriano non abbia mancato l’occasione, cogliendo gli stimoli necessari dalla proposta di Greco e Lorenzo, per farli “scivolare” nel terreno della “poesia totale”. Il punto di partenza per una simile lettura deve essere, a questo punto, come già annotato nei loro contributi dai fratelli Spatola, il quadrato di tela bianca, grezza, incollato sul foglio bianco di copertina e racchiuso all’interno di una minima cornice nera, senza alcuna scritta. Ciò non fa altro che condurre il discorso, dell’operazione e del risultato finale da inquadrare, a questo punto, nella formula definitiva del catalogo, all’interno di un terreno ampio e articolato, come di fatto è quello della poesia totale, dove la convivenza degli stimoli più disparati concorre alla costruzione di un discorso poetico aperto e plurimo, in movimento e la risultante dell’operazione, che ha per motivo focale la copertina del catalogo, apre nella plasticità della scelta a derivazioni di area concreta che sono rinviate da Adriano Spatola all’opera del giapponese Kitasono Katue. Qui il processo di geometrizzazione delegato alla copertina conferisce al catalogo il rango di libro d’artista e lo status di opera di poesia concreta, dove la sperimentazione dello spazio è colta negli stessi termini in cui viene esperito nella performance; altro preciso rinvio è segnalato ancora da Spatola in introduzione, ed appartiene all’aver declinato la proposta dei due artisti visivi lungo le vie degli environments, in particolar modo quelli facenti riferimento al gruppo Fluxus e George Brecth. La tela bianca sulla copertina non solo rimanda in maniera diretta e inequivocabile all’azione performativa messa in opera da Greco e Lorenzo, ma colloca il libro stesso in un circolo di semiosi infinita dove il corto circuito è dato proprio dal non poter più esperire il concetto di opera nelle modalità tradizionali. Il libro stesso diventa altro spazio da rimodellare, da interventare? A questo punto il catalogo è tale, ma anche no, è al di là dell’essere un catalogo e riproduce in una spazialità rinnovata e diversa l’esperienza della performance senza incunearsi nei già battuti terreni dell’add and return propri della mail art. La rinuncia al ruolo dell’artista, afferma Adriano Spatola, conduce i due autori a stabilire «le radici del proprio lavoro nella zona dell’impegno collettivo […] Si viene così a costituire una continuità dinamica che è apertura totale verso l’immaginazione pubblica» e ancora che «proponendo il gioco della tela bianca essi dichiarano di affrontare il problema della comunicazione artistica da attori, e non da spettatori. Questo tipo di responsabilità coinvolge le individualità singole fino in fondo, senza più lo schermo protettivo della stupefazione rispettosamente indifferente e morbosamente complice davanti al prodotto artistico, finalmente spogliato (per sempre?) dei suoi attributi magico-religiosi». La proposta di un’azione collettiva è già estasi di intervento, moltiplicazione, esubero delle forze in azione per cui il rapporto tra le forze stesse è trasversale e non preventivato; l’oggetto-tela disposto nello spazio come momento catalizzatore è evento ludico, laico, privato dei suoi “attributi magico-religiosi” è fede, ma nell’uomo. La scrittura poetica dell’opera è l’azione dei corpi che abitano lo spazio – la tela – e nella moltiplicazione del “numero”, come traccia dell’attore sociale, si aprono spazi di esaltazione per il fare collettivo. Il rigore del montaggio in copertina non è più essenza della visione, ma modulo d’azione, invito alla scrittura ludica e libera di una superficie che nella qualità grezza, materica, ha già un indirizzo estetico del fare.

Poesia qualepoesia/01: Apertura per salti e altro dire

Poesia qualepoesia/02: Premessa storico-contestuale

Poesia qualepoesia/03: Unità di politica, arte e scrittura. La poesia visiva a Taranto

Poesia qualepoesia/04: Michele Perfetti

Poesia qualepoesia/05: Anni ’60. Ricerche verbo-visive in Puglia

Poesia qualepoesia/06: Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce

Poesia qualepoesia/07: Le microscritture di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/08: Una inesaurita ricerca. L’opera di Dòdaro tra parola e new media

Poesia qualepoesia/09: Franco Gelli. O poesia, o follia

Poesia qualepoesia/10: Antonio Massari. Oh abitare in una rosa di 25 stanze

Poesia qualepoesia/11: Giovanni Valentini. Particolari di una poesia come progetto

Poesia qualepoesia/12: Ilderosa Laudisa. Paesaggio umano

Poesia qualepoesia/13: Francesco Pasca. La singlossia nel racconto

Poesia qualepoesia/14: Vittorio Balsebre. Nel segno dei fotograffiti

Poesia qualepoesia/15: Fernando De Filippi. Arte e ideologia

Poesia qualepoesia/16: Altri luoghi e momenti del verbo-visivo in Puglia

Poesia qualepoesia/17: Oronzo Liuzzi. Elementi di una poetica esistenziale

Poesia qualepoesia/18: Vincenzo Lagalla. La parola come luogo

Poesia qualepoesia/19: Franco Altobelli. Il motivo dell’incognita come matrice

Poesia qualepoesia/20: Antonio Verri. Il corpo che racconta

Poesia qualepoesia/21: Raffaele Nigro. Il parlare sconvolto

Poesia qualepoesia/22: Edoardo De Candia, relazioni liminali del segno

Poesia qualepoesia/23: Lo svuotamento della scrittura. L’asemic writing in Puglia

Poesia qualepoesia/24: Antonio Noia. Geometrie: del segno, della parola

Poesia qualepoesia/25: Francesco S. Dòdaro: dal modulo all’Internet Poetry

Poesia qualepoesia/26: La strada nuova e il Laboratorio di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/27: La scrittura mediterranea di Vittorio Del Piano

Poesia qualepoesia/28: Beppe Piano. Dinamiche variazioni di senso

Poesia qualepoesia/29: Glitch. Appunti per un itinerario pugliese

Poesia qualepoesia/30: Antonio Verri: metropoli, oggetti, altre scritture

Poesia qualepoesia/31: Le scritture di Vincenzo Ampolo e Marilena Cataldini

Poesia qualepoesia/32: Vitantonio Russo l’Economic Art

Poesia qualepoesia/33: Egidio Marullo: la scrittura defigurata

Poesia qualepoesia/34: Beppe Bresolin, elementi di poesia concreta

Poesia qualepoesia/35: I romanzi visivi di Mimmo Castellano

Poesia qualepoesia/36: Cristiano Caggiula: proliferazione di segni e criticità sociali

Poesia qualepoesia/37: Profili: Nuzzolese, Maglione, Corallo, Fanciano, Leo, Buttazzo, Dimastrogiovanni

Poesia qualepoesia/38: Nadia Cavalera, Amsirutuf: enimma

Poesia qualepoesia/39: L’uomo come segno in disordine. Note sull’opera di Cristiano Caggiula

Poesia qualepoesia/40: Vittorino Curci, Inside 1976-1981

Poesia qualepoesia/41: Vittorino Curci, l’allargamento del segno

Poesia qualepoesia/42: Rossana Bucci, il taglio della superficie

Poesia qualepoesia/43: Fernando Bevilacqua, gestoscrittura: l’immagine, il suono, la traccia

Poesia qualepoesia/44: La radice informale nella verbovisualità di Vandagrazia De Giorgi

Poesia qualepoesia/45: Profili: Augieri, Carpentieri, Marrocco

Poesia qualepoesia/45: Profili: Augieri, Carpentieri, Marrocco

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Rubrica a cura di Francesco Aprile

Fra indagini antropologiche e recupero di una memoria popolare in relazione ai linguaggi musicali e/o dell’oralità in senso più ampio, la cultura nel Salento trovava nuovi snodi; a questa declinazione della memoria non restavano indifferenti letteratura e arte. Se il poverismo aveva contribuito a spostare l’attenzione su problematiche di sostenibilità ambientale, nonché verso i litorali di una materialità diversa, rinnovata, lo scavo antropologico in area musicale traghettava il sapore politico di una coscienza ritrovata. Lo sviluppo dei linguaggi letterari trovava di certo nuova linfa, a partire dagli anni Settanta, a cavallo di relazioni liminali dei segni, dei simboli, delle pratiche capaci di intrecciarsi e rileggere, alle volte, il popolare, in un senso etnografico, alla luce di un suo rinnovamento; allo stesso tempo, autori provenienti da campi differenti operavano in un crollo sistematico delle barriere, degli argini, accorrendo ad ingrossare le fila della verbovisualità o di quella letteratura di stampo neoavanguardistico improntata al gioco, alla mescidazione, alla costruzione di ingranaggi letterari capaci di trovare nella manipolazione della parola la materia prima da cui partire.

Nelle scritture della seconda metà degli anni Settanta pubblicate da Carlo Alberto Augieri, oggi docente di Critica letteraria e Ermeneutica del testo presso l’Università del Salento, sulle pagine della rivista “Ghen” del Movimento Arte Genetica, fondato nel 1976 da Francesco S. Dòdaro, è possibile rintracciare quanto appena detto. “Ghen” era una rivista modulare, annuale, ideata, progettata e diretta da Francesco Saverio Dòdaro come organo del movimento di Arte Genetica, della quale uscirono tre numeri (1977, 1978, 1979). A partire dal primo numero di “Ghen” Augieri, che aveva con titubanza aderito al movimento nel 1976 firmando i suoi interventi con lo pseudonimo di Italo Sider, avviava un discorso poetico e teorico che, nell’intreccio di elementi folklorici con altri provenienti dai campi della comunicazione, tendeva a darsi nella forma di una poesia critica e storica, seppure nutrita in misura preponderante dal gioco dell’invenzione linguistica, dove il neologismo si dava nella postura di una commistione fra dialetto e inglese che pure aveva il compito, nell’ottica del discorso avviato dall’autore, di sondare i fondali della storia come critica e risimbolizzazione culturale. Sul primo numero della rivista comparivano gli interventi “Identità de-sider(i)ale” e “Palom/bara a Otranto”. Con il primo intervento, un testo a carattere teorico, una dichiarazione d’intenti, l’autore procedeva con il dipanare le coordinate della sua poetica prendendo le distanze dal realismo come dal popolare inteso come connotativo di “pubblico vasto e grosso”, accettando il compromesso di porsi nell’accettazione degli stilemi propri delle innovazioni tecnologiche e delle contaminazioni linguistiche. “Palom/bara a Otranto” spostava la produzione di Augieri sul piano poetico, il quale appariva mosso da coordinate tipiche di un postmoderno incline al gioco, al trasporto sonoro di una lingua che nella mescidazione fra dialetto e inglese cercava una diversa forma di oralità, evidenziando il guasto di una cultura locale che veniva dimenticata e soppiantata da una diversa, non appartenente alla memoria di chi abitava i luoghi del Salento. Attingendo a piene mani dagli itinerari del modernismo e del postmodernismo, l’autore ne combinava gli elementi e laddove il postmoderno con l’inclinazione al neologismo, all’informazione, al messaggio, alla comunicazione appariva preponderante, la dimensione critica nei confronti dell’avvento della contemporaneità tecnologica apriva a istanze moderniste, le quali trovavano nella confluenza di elementi di area filosofica e psicoanalitica motivi centrali della messa in opera di una azione critica; proprio questa azione aveva nel “simbolo” come grimaldello del linguaggio poetico dell’autore la chiave del percorso. Sulle pagine del secondo numero di “Ghen” (1978) l’intervento teorico “Etno-poesia come proposta” contribuiva a spiegare ulteriormente il tracciato. L’autore, che dal numero del 1978 metteva da parte lo pseudonimo “Italo Sider” (nel quale è possibile ravvisare un richiamo a quella componente critica contro la contemporaneità, un discorso allacciabile alle polemiche rivolte in Puglia verso l’Italsider di Taranto) dichiarava: «La poesia, ecco perché parlo di antropo-poesia, può penetrare, comunicare, destrutturare, appunto perché si fonda sul simbolico, i termini della follia-etnia; specialmente la poesia: più che la filosofia o il discorso scientifico. […] Il simbolo non si cura, si penetra per ri-simbolizzarlo, ri-acculturalizzarlo: ri-etnizzare la follia tramite un’operazione culturale penetrante vuol dire ri-associare la dissociazione; riappropriarsi del desiderio che essa esprime, capire i bisogni, prima che vengano incanalati, omologati. Riprendiamoci i nostri simboli, risorgiamo ai nostri desideri […] fare poesia vuol dire “desiderare”». In questo senso la parola poetica in Augieri, forte del grado di simbolizzazione perseguito, procede imbastendo un discorso desiderante, in questo caso in linea con i presupposti teorici del movimento articolati da Dòdaro (fra questi: il linguaggio come congiunzione per rifondare la coppia, l’unità duale, dunque il linguaggio come luogo dell’alterità), dove l’errore che nasce dalla confluenza di una lingua dimenticata o quasi, quella della cultura popolare stravolta e soppiantata dalla nuova cultura dell’omologazione-comunicazione di massa, con una nuova lingua poco masticata e che non rivela radicazioni profonde, si pone come sintomo di un desiderio, in qualche modo strozzato dal bombardamento mediatico, e nelle commistioni totalizzanti dei linguaggi rivela l’inceppo della rimozione, della coazione, della radicazione dimenticata che a tratti emerge frantumando la linearità del discorso, ostacolandone l’andamento in superficie: «esplode il senza corpo / nel cielo fatto a nubi / nate a inqui dai reparti / molecole di acqua / ferretti / acidetti / e vola senz’urtare / sfrutta il Fiat-o / lo gira a tubi / ( r )es/plode / non urta a me / che son carne / sdegna da quand’è risorto» (Augieri, Res…urrezione, in Ghen, n. 2, 1978). L’attacco di Augieri è dunque indirizzato alla “tecnolo-Dia” che ha preso il posto di Dio come fondamento primo; questa posizione rivela già la tensione spirituale dell’autore che diverrà nel tempo via via manifesta con l’abbandono delle istanze sperimentali.

La vicenda di Toti Carpentieri intreccia gli itinerari della memoria, ma di una memoria-luogo, all’interno delle teorie genetiche; l’autore, infatti, aderiva nel marzo Settantasei al Movimento Arte Genetica di Dòdaro, dopo un primo periodo di esitazione. Carpentieri, la cui attività si sviluppa principalmente sul piano critico, nasce pittore, infatti nel Sessantaquattro fondava a Lecce con Giovanni Corallo, Bruno Leo, Salvatore Fanciano il “Prismagruppo” dove la messa in crisi della raffigurazione vedeva il trionfo dell’oggetto e dell’oggettualità dell’opera. Sul primo numero di “Ghen”, del 1977, con l’intervento “Considerazioni sull’arte genetica” enunciava la sua interpretazione del movimento che in parte tradiva quelle che erano le coordinate tracciate da Dòdaro e seguite dagli altri autori. La teoria genetica di Dòdaro oltre a proporre un discorso sull’origine dell’arte e del linguaggio, rintracciandone il primo e fondamentale elemento nel battito materno ascoltato in età fetale (teoria confermata oggi da importanti ricerche scientifiche; una di queste, condotta da Kyra e Annette Karmiloff, nel 2001, pubblicata dalla Harvard University Press, mostra come la sonorità costante del battito materno, i gorgoglii del corpo, i brontolii e i suoni all’interno del ventre, siano gli stimoli fondamentali per il feto. In un secondo momento subentrano i suoni prodotti dal linguaggio) si pone come una teoria del soggetto, in parte allineata con alcune posizioni dell’esistenzialismo e della psicoanalisi lacaniana. Carpentieri, con questo suo primo intervento genetico spostava radicalmente il concetto base del movimento fraintendendone l’origine; ciò che veniva cancellato da Carpentieri era l’idea di arte genetica. Se il primo linguaggio, o protolinguaggio, sul quale poggeranno le successive manifestazioni umane, è assimilabile al battito materno ascoltato in età fetale, allora a ragione Dòdaro ha potuto teorizzare e articolare un discorso relativo ad un’arte genetica. Tale posizione è saltata da Carpentieri che nelle sue considerazioni muoveva verso un’idea genetica come “metodo”, ovvero “metodo genetico” e non più arte: «ed è proprio in tale ottica che io parlerei di “arte genetica”, intendendo la manifestazione artistica come fatto in progress (nessuna novità, ovviamente) che ben s’inquadra nel concetto di estetica generalizzata di cui parlava Restany (aprile 1966) a proposito della socializzazione dell’arte. […] Ne consegue allora che parlerei non tanto di arte genetica, ma di “metodo genetico” sull’arte». In questo caso il salto è doppio, nonché errato. Quanto sviluppato da Dòdaro nei testi teorici dell’arte genetica non illustra una teoria volta alla socializzazione dell’arte e il processo, ravvisabile sullo sfondo della teoria, è un “processo” relativo al farsi del soggetto, non certo dell’opera; il che implica la caduta delle posizioni assunte da Carpentieri. Sul terzo numero della rivista, l’intervento di Carpentieri intitolato “Triplice” spostava ancora il raggio d’azione proponendo un’operazione attinente ai piani della verbovisualità declinata con accenti teorici. Venivano ripresi dal critico alcuni frammenti delle precedenti “Considerazioni” inglobate nella costruzione dell’opera verbovisiva con la quale esprimeva il suo concetto di processo articolato in relazione ai luoghi: «la generazione e la trasmissione dei caratteri ereditari dipende anche dal luogo di nascita e dallo spazio vitale». In questo caso la dimensione del processo è anche un’indagine sulla memoria individuale (caratteri ereditari) come radicazione nei luoghi, «luogo di nascita» e «spazio vitale» che contribuiscono a generarla.

Armando Marrocco è nato a Galatina, provincia di Lecce, nel 1939. Pittore, scultore, autore di libri oggetto, pratica i territori dell’arte comportamentale nonché della verbovisualità. L’attività di Marrocco inizia precocemente. A Lecce è notato da Francesco Saverio Dòdaro il quale nella progettazione del negozio di Vittorio Adreatta, nel 1960, commissiona al giovane artista una grande scultura in cemento. Sempre nel Sessanta Marrocco assiste a Milano alla storica mostra del Nouveau Realisme presso la Galleria Apollinaire, maturando l’idea di trasferirsi nella città meneghina, cosa poi avvenuta grazie anche all’intervento di Lucio Fontana che sostiene questa sua idea dopo aver visionato alcune opere. A Milano è ospitato per un primo periodo da Piero Manzoni. Dopo una prima fase legata all’informale materico è sedotto dal fascino dei nuovi materiali che l’ondata del Nouveau Realisme ha introdotto nell’arte. Tiene la sua prima mostra milanese nel 1966, nel 1976 è, invece, tra i primi firmatari del manifesto del Movimento di Arte Genetica fondato da Dòdaro. Proprio sulle pagine di “Ghen”, nel primo numero datato al 1977, Marrocco propone un discorso incentrato sulla memoria dove la presa in considerazione, e la messa in evidenza del corpo, diventano attraverso il materiale fotografico elementi che fissano il dato memoriale cristallizzando il presente in una forma che guarda al rapporto dell’uomo con l’ambiente. Il dato interazionale dell’autore era peraltro già evidenziato quando nel Sessantotto realizzava l’opera “Uomo e formica”, ovvero un libro oggetto in plexiglass al cui interno erano presenti muschio, legno, terra, formiche vive. Ugo Carrega, maestro della poesia visiva e delle nuove scritture, noterà la componente verbovisuale e/o autorale nell’opera di Marrocco invitandolo a prendere parte a diverse mostre, fra queste: La Nuova scrittura (Mercato del Sale, 1977), Scrittura attiva (Mercato del Sale, 1979). Negli stessi anni era ancora attivo all’interno del Movimento Arte Genetica continuando a sviluppare un discorso capace di spaziare fra poesia visiva e narrative art sul filo della memoria personale. Nel 1978 sulle pagine di “Ghen” comparivano le opere “Mia madre e mio padre, possibili ingegneri genetici” e “Action remembering”. Con la prima proponeva una foto dei genitori, appunto gli ingegneri genetici, radicando l’indagine condotta sulla memoria alle dinamiche della narrative art, dove, in questo caso, la narrazione era condotta dal titolo, perfettamente inquadrato nelle teorie genetiche, senza inserimenti calligrafici, e il dato evocativo della foto “rubata” a qualche cassetto aumentava il grado empatico dell’operazione e della narrazione. Con “Action remembering”, invece, presentava una foto, ancora “rubata” da qualche memoria, da qualche cassetto, nello stile della narrative art, e la rattoppava, in quanto strappata, ricostruendola, cucendola, recuperando la memoria e costituendo lo sforzo di ritrarre dall’oblio il ricordo, compiendo l’azione del ricordare compiva l’azione del riparare il trauma che aveva prodotto la dimenticanza, ricostruendo la foto ricostruiva se stesso.

Poesia qualepoesia/01: Apertura per salti e altro dire

Poesia qualepoesia/02: Premessa storico-contestuale

Poesia qualepoesia/03: Unità di politica, arte e scrittura. La poesia visiva a Taranto

Poesia qualepoesia/04: Michele Perfetti

Poesia qualepoesia/05: Anni ’60. Ricerche verbo-visive in Puglia

Poesia qualepoesia/06: Un’altra pagina. Le ricerche intermediali a Lecce

Poesia qualepoesia/07: Le microscritture di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/08: Una inesaurita ricerca. L’opera di Dòdaro tra parola e new media

Poesia qualepoesia/09: Franco Gelli. O poesia, o follia

Poesia qualepoesia/10: Antonio Massari. Oh abitare in una rosa di 25 stanze

Poesia qualepoesia/11: Giovanni Valentini. Particolari di una poesia come progetto

Poesia qualepoesia/12: Ilderosa Laudisa. Paesaggio umano

Poesia qualepoesia/13: Francesco Pasca. La singlossia nel racconto

Poesia qualepoesia/14: Vittorio Balsebre. Nel segno dei fotograffiti

Poesia qualepoesia/15: Fernando De Filippi. Arte e ideologia

Poesia qualepoesia/16: Altri luoghi e momenti del verbo-visivo in Puglia

Poesia qualepoesia/17: Oronzo Liuzzi. Elementi di una poetica esistenziale

Poesia qualepoesia/18: Vincenzo Lagalla. La parola come luogo

Poesia qualepoesia/19: Franco Altobelli. Il motivo dell’incognita come matrice

Poesia qualepoesia/20: Antonio Verri. Il corpo che racconta

Poesia qualepoesia/21: Raffaele Nigro. Il parlare sconvolto

Poesia qualepoesia/22: Edoardo De Candia, relazioni liminali del segno

Poesia qualepoesia/23: Lo svuotamento della scrittura. L’asemic writing in Puglia

Poesia qualepoesia/24: Antonio Noia. Geometrie: del segno, della parola

Poesia qualepoesia/25: Francesco S. Dòdaro: dal modulo all’Internet Poetry

Poesia qualepoesia/26: La strada nuova e il Laboratorio di Enzo Miglietta

Poesia qualepoesia/27: La scrittura mediterranea di Vittorio Del Piano

Poesia qualepoesia/28: Beppe Piano. Dinamiche variazioni di senso

Poesia qualepoesia/29: Glitch. Appunti per un itinerario pugliese

Poesia qualepoesia/30: Antonio Verri: metropoli, oggetti, altre scritture

Poesia qualepoesia/31: Le scritture di Vincenzo Ampolo e Marilena Cataldini

Poesia qualepoesia/32: Vitantonio Russo l’Economic Art

Poesia qualepoesia/33: Egidio Marullo: la scrittura defigurata

Poesia qualepoesia/34: Beppe Bresolin, elementi di poesia concreta

Poesia qualepoesia/35: I romanzi visivi di Mimmo Castellano

Poesia qualepoesia/36: Cristiano Caggiula: proliferazione di segni e criticità sociali

Poesia qualepoesia/37: Profili: Nuzzolese, Maglione, Corallo, Fanciano, Leo, Buttazzo, Dimastrogiovanni

Poesia qualepoesia/38: Nadia Cavalera, Amsirutuf: enimma

Poesia qualepoesia/39: L’uomo come segno in disordine. Note sull’opera di Cristiano Caggiula

Poesia qualepoesia/40: Vittorino Curci, Inside 1976-1981

Poesia qualepoesia/41: Vittorino Curci, l’allargamento del segno

Poesia qualepoesia/42: Rossana Bucci, il taglio della superficie

Poesia qualepoesia/43: Fernando Bevilacqua, gestoscrittura: l’immagine, il suono, la traccia

Poesia qualepoesia/44: La radice informale nella verbovisualità di Vandagrazia De Giorgi