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Pugliesi fuorisede/15: intervista a Fernando Coratelli
Fernando Coratelli è nato a Bari, ma si è trasferito sui Navigli ormai da quindici anni. Lavora nell’editoria, organizza eventi letterari, dirige il webmagazine «Torno Giovedì» ed è presente con diversi racconti su varie antologie. Ha pubblicato i romanzi Altrotempo (Cadmo Editore, 2008), Quando il comunismo finì a tavola (CaratteriMobili, 2011) e La resa (Gaffi Editore, 2013).
Partiamo dal principio: perché e quando sei venuto a vivere a Milano.
Sono arrivato a Milano nell’autunno del 1998, altro secolo, altro millennio. Milano non è stata la scelta di vita, è venuta casuale, più che altro la mia essenza nomade mi ha portato via da Bari. Se fossi nato a Milano sarei andato via da Milano – mi sento migrante.
Arrivato in Lombardia, quali erano le tue idee? Come ti sei avvicinato al mondo editoriale?
A Milano sono venuto a frequentare un corso di Tecniche editoriali. Scrivevo, sognavo di fare il romanziere, ma non volevo fare altro nella vita, cioè ho pensato “vorrei lavorare di ciò che amo più di ogni altra cosa fare: leggere e scrivere”.
Il tuo pamphlet, Quando il comunismo finì a tavola, in un certo senso, ricorda un testo candidato al Premio Strega, Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo. L’hai letto? In generale, segui i premi letterari?
Ammetto di non avere letto il libro di Francesco Piccolo, e in ogni caso il mio è antecedente al suo. Non è uno dei miei autori di immediato riferimento, se mi passi l’espressione, non so se lo leggerò, insomma, ho altri più urgenti da leggere. Non seguo i premi, perché in Italia non ce n’è uno che non sia stabilito a tavolino dai grandi gruppi editoriali, non sono mai premi meritocratici ma sempre di potere.
Quanto c’è di tuo nel confronto tra storia politica italiana e tua storia personale visibile nel libro pubblicato con CaratteriMobili? Perché, per chi non lo sapesse, in questo libro per ogni avvenimento storico-sociale di qualche rilevanza tu fornisci il tuo contrappasso soggettivo, dando dettagli su dove eri, cosa stavi facendo, quali scarpe avevi messo, ecc.
Quelli bravi direbbero che Quando il comunismo finì a tavola è un libro di autofiction. Non è del tutto vero, la parte narrativa e romanzata ha un suo peso specifico, sono veri però tutti i riferimenti storici, poi se la storia del protagonista collimi alla perfezione o no con la mia credo sia davvero di poco interesse.
La resa è il tuo ultimo romanzo. Nel titolo sveli, per così dire, il sentimento di fondo dei personaggi, che, dopo aver vissuto un trauma iniziale, hanno deciso di cambiare vita – proposito molto difficile da mantenere…
Sì, il titolo è già di per sé uno svelamento del climax. Era mia intenzione raccontare una resa incondizionata e imperante della borghesia intellettuale odierna, quella dei trenta/quarantenni che non hanno saputo costruire niente, che faticano a mantenere in piedi i vecchi valori del Novecento, che forse di quei valori sono schiavi senza apprezzarli eppure tuttavia si dimenano nel tentativo di salvaguardare uno status. Un po’ come dice quel personaggio nel film L’odio (La Haine) di Kassovitz: “L’uomo che precipita dice fin qui tutto bene, fin qui tutto bene: ma il problema non è la caduta bensì l’atterraggio”.
Ti sei mai chiesto come reagiresti tu se ci fosse veramente un attacco terroristico a Milano?
Temo che reagirei come uno dei personaggi di La resa, temo che anche tu reagiresti allo stesso modo, temo che chiunque legga questa intervista reagirebbe così. D’altronde attentati di quella portata ci sono stati, e dopo gli iniziali buoni propositi della gente colpita dalle stragi alla fine ha vinto quella resa intellettuale di cui parlavo prima.
«Torno Giovedì» e Lite Editions. Due progetti online, diversi. Ce li racconti?
Due progetti diversi fra loro, compreso il mio ruolo. «Torno Giovedì» è stato un webmagazine di narrazioni nato nel 2010 da un’idea mia, di Luigi Carrozzo e Franz Krauspenhaar. Sentivamo la mancanza di uno spazio di narrazioni, visto che in quel momento storico alcuni dei grandi blog letterari (si pensi a Nazione Indiana o a Primo Amore) ormai erano appiattiti solo su temi di attualità sociopolitica o al più su recensioni. Mancavano spazi aggreganti di storie, di esperimenti letterari e linguistici. Sono stati tre anni fecondi, firme più o meno famose hanno dato il loro contributo e ci possiamo fregiare anche di avere dato spazio a alcune narrazioni che poi hanno trovato spazio editoriale (tipo La prigione grande quanto un Paese di Marco Drago che dopo averlo pubblicato a puntate su «Torno Giovedì» è diventato un libro per Barbera Editore), o di avere spinto e lanciato esordienti, oltre a avere ospitato autori stranieri che ci hanno inviato loro inediti (penso a David Camus, a Richard Godwin, a Catherine Dufour, fra gli altri).
Lite Editions invece è una casa editrice digitale, nata da un’idea di Desideria Marchi e Giorgio Lonardi. È stata la prima casa editrice italiana di short-story erotiche, che poi ha ampliato il suo raggio di azione a romanzi e a generi come il noir e il romance. Ma di Lite Editions sono stato solo il direttore editoriale per un anno.
A dicembre è andato in scena L’ambigua storia di un bicchiere di Merlot; prossimamente porterai in scena un altro testo, un work in progress di C’è ancora vita sulla costa orientale. Quali sono le difficoltà di scrivere un testo teatrale? E com’è avere il controllo solo di una parte dell’opera, essendo stato autore e sceneggiatore, ma non regista della commedia?
Difficoltà a scrivere un testo teatrale devo dire che non ne ho incontrate. Studio dialoghi da quando ho cominciato a scrivere, non a caso tutta la mia produzione narrativa ha come base i dialoghi, spesso vituperati in Italia, difatti pochi sanno davvero scriverli e dare voci verosimili e specifiche ai personaggi. Non essere il regista di ciò che si scrive è una manna dal cielo, aiuta a lavorare sul testo di continuo, a doversi confrontare, a sapersi mettere in discussione fino al minuto prima che gli attori vadano in scena.
Qual è la sensazione che hai provato nel vederlo, ascoltarlo realizzato?
Una sensazione irripetibile. A uno scrittore non capiterà mai di avere davanti agli occhi duecento o trecento lettori tutti insieme nello stesso momento. A un autore teatrale questo succede: sei lì e recepisci subito l’impatto del pubblico, capisci al volo ciò che ha funzionato e quello che invece va risistemato.
Ultimamente hai sviluppato un certo tipo di scrittura corale, a più voci, di stampo “americano”, e mi sembra che questa sia una scelta precisa che va nella direzione di un recupero dell’epica in letteratura. A quali autori fai riferimento in tal senso? E credi che ci sia qualcun altro che si muove in questa direzione in Europa?
Beh è fin troppo facile (ma è anche vero) dire che i miei autori di riferimento sono Don DeLillo e Cormac McCarthy su tutti. Poi Carver non lo fai mancare mai, dopodiché non tralascerei Auster né McInerney. In Europa non disdegno McEwan (anche se non tutto) e Houellebecq, mi piace molto Zadie Smith, ma vorrei anche segnalare il tedesco Eugen Ruge, per restare in tema di romanzi corali. In Italia si ricomincia ora, non dispero, arriverà roba interessante, ne sono certo.
In chiusura, tornerei alle origini. E ti chiederei di descrivermi il tuo rapporto con la Puglia, con Bari, con le tradizioni, con ciò che hai lasciato ormai da un po’ di tempo.
Ho un rapporto controverso con le tradizioni. Forse sarà la parola che non amo particolarmente, visto che adoro scoprire ancor più che riscoprire. Direi comunque che il mio rapporto con Bari è di stima reciproca. Battute a parte, non sono nostalgico, non lo sono in amore, figurarsi con le origini. Tuttavia la Puglia è una terra bellissima dai colori intensi che ti porti dentro per sempre, ma quello che più di tutto mi lega indissolubilmente con la Puglia, con Bari soprattutto, è l’alba. Il sole sorge dal mare a Oriente, e io sono nelle idee, nelle azioni, nei pensieri sempre con lo sguardo fisso verso Levante.
Azzurra Scattarella
Pugliesi fuorisede/14: intervista a Giuliano Pavone
Giuliano Pavone (1970), giornalista e scrittore, è nato a Taranto e vive a Milano. Dal 1999 a oggi ha pubblicato una quindicina di libri, fra cui due romanzi, entrambi ambientati in Puglia ed entrambi per Marsilio: L’eroe dei due mari (2010) – che si è aggiudicato tre diversi riconoscimenti nell’ambito della narrativa sportiva, e da cui nel 2012 è stata tratta una graphic novel – e 13 sotto il lenzuolo. Dal 2014 tiene corsi di scrittura con sua moglie Lucia Tilde Ingrosso.
Hai scelto abbastanza presto di lasciare la tua città e andare a studiare fuori, a Milano. A cosa era dovuta questa scelta?
Voglia di conoscere il mondo, credo. L’assenza di un’università a Taranto mi spingeva a scegliere fra una città vicina, con la prospettiva di fare il pendolare, e una lontana. Fra le due opzioni ho scelto la seconda, e fra le città lontane ho scelto una delle più lontane, non solo geograficamente.
Quando sei partito per l’università immaginavi di restare a vivere fuori o è semplicemente “successo”?
Quando sono partito per l’università dovevo ancora compiere diciott’anni: a quell’età si pensa davvero a dove si vivrà da lì a vent’anni? Io di sicuro non lo facevo. Ero molto più concentrato sul presente e sul futuro prossimo. Credo che non fossi del tutto consapevole di quanto quella scelta potesse orientare la mia vita, ma allo stesso tempo penso che sotto sotto sapevo che sarebbe andata così. Almeno finora. In futuro, chissà.
Il tuo primo libro è di stampo umoristico, tratto che non hai decisamente mai perso, e si intitola Giovannona Coscialunga a Cannes. Dietro il faceto, però, hai anticipato quella che sarebbe stata una forte ondata di revival di un certo tipo di cinema all’italiana. Come hai fatto a vederci lungo?
Non è uno di quei primati che inorgogliscono le mamme, ma in effetti fui uno dei primi a occuparmi in un certo modo di quel tipo di cinema. Il libro uscì nel 1999, ma l’interesse “scientifico” (fra molte virgolette) per quel tema risale ad almeno cinque anni prima, quando con degli amici partecipai a una specie di conferenza goliardica sulla commedia sexy. Allora solo Marco Giusti diceva certe cose. I Veltroni e i Tarantino vennero dopo e, se Giovannona Coscialunga non andò a Cannes, Quel gran pezzo dell’Ubalda fu proiettato al Festival di Venezia, grazie proprio a Tarantino! Naturalmente il mio scopo non era anticipare una moda o “vederci lungo” (fra l’altro si dice che certe pratiche legate alla visione di quei film accorciassero la vista anziché allungarla…): molto più semplicemente mi è sempre piaciuto mischiare l’alto e il basso, e trovare degli spunti di interesse anche in ciò che generalmente viene ritenuto poco meritevole di approfondimento.
In 13 sotto il lenzuolo il protagonista è un tarantino che viveva a Milano ma poi torna nel suo paesello natio. C’è qualche eco autobiografica in questo romanzo?
Anche in L’eroe dei due mari la storia si svolge in Puglia ma con qualche finestra aperta verso Milano, e ciò ovviamente riflette la mia esperienza personale: mi piace mettere a confronto le due realtà che conosco meglio, e riflettere su come ciascuna guarda all’altra. Detto questo, il protagonista di 13 sotto il lenzuolo, che peraltro non è di Taranto ma di un immaginario paese che si capisce essere non lontano dalla città dei due mari, ha ben poco in comune con me. Fra l’altro è più vecchio di dieci anni, e ha certi atteggiamenti “eticamente disinvolti” che proprio non mi appartengono. Anche se alcune lettrici hanno dato per scontato che si trattasse di un mio alter ego e hanno accusato di maschilismo me per dei comportamenti assunti dal mio personaggio nelle pagine del romanzo.
Il calcio è sicuramente una tua grande passione, che torna in diversi tuoi libri (dall’antologia Pallafatù. Il calcio visto da Taranto a L’eroe dei due mari). Sei un tipo alla Nick Hornby che si eclissa quando ci sono le partite e che decide i viaggi in base al calendario della sua squadra di calcio (ma a proposito, per quale squadra tifi?)?
Assolutamente sì! Tifo per il Taranto, ovviamente.
L’eroe dei due mari ha una storia editoriale particolare: prima ancora di essere pubblicato per Marsilio se ne parlava già, grazie all’interessamento di Tommaso Labranca. Com’è andata questa avventura?
Avevo dato la mia prima bozza del romanzo a degli amici esperti di scrittura perché mi consigliassero come migliorarla in vista dell’invio alle case editrici. Fra loro c’era Tommaso Labranca (un grandissimo, peraltro conosciuto proprio alla conferenza goliardica di cui sopra), che nella sua rubrica sul settimanale “Film TV” parlò del mio testo inedito. Ciò sollevò l’immediato interesse di alcuni editori fra i quali Marsilio, con cui firmai pochi mesi dopo.
Ma il libro non aveva un editore prima di Marsilio?
No: avevo solo, da un paio di mesi, iniziato a inviare il dattiloscritto ad alcuni editori, Marsilio compreso. Ma nessuno mi aveva ancora risposto. Cosa peraltro del tutto normale, visti i tempi elefantiaci dell’editoria.
Prima di dedicarti esclusivamente alla scrittura ti occupavi di bandi e progetti europei. Com’era questo lavoro?
Era un bel lavoro, che fra l’altro mi permetteva di viaggiare tanto. Già da allora però dimostravo la mia predilezione per la scrittura: mi ero specializzato nella stesura dei progetti e – per quanto possa apparire strano – quella competenza “tecnica” mi sarebbe tornata molto utile quando decisi di scrivere un romanzo.
Com’è lavorare sui libri in coppia con tua moglie, Lucia Tilde Ingrosso?
Avere una partner che come te è appassionata e professionista della scrittura è meraviglioso. Ci capiamo, anche nelle nostre “stranezze” da scrittori, ci aiutiamo e ci completiamo. Questo accade indifferentemente per tutti i libri, sia quelli a quattro mani sia quelli che scriviamo ognuno per conto proprio: l’atto della scrittura è sempre individuale, ma tutto il contorno è sempre condiviso, anche per i libri “a solo”.
Avete mai pensato di ritrasferirvi in Puglia?
Sì, soprattutto negli ultimi tempi. Ma una decisione del genere non si prende in astratto: dipende dalle occasioni che la vita ti dà, e dalle condizioni in cui si concretizzerebbe l’eventuale trasferimento. Non si può dire in quale posto sia meglio vivere in assoluto. Al momento pensiamo che il vero privilegio non sia poter vivere in una determinata città anziché in un’altra, ma il potersi spostare con una certa libertà in più luoghi nel corso dell’anno. Un privilegio che da un po’ di tempo a questa parte ci stiamo dando, continuando a fare base a Milano ma allungando i nostri soggiorni in Puglia.
Calcio a parte, qual è la cosa che ti porti più dentro del tuo luogo d’origine?
Durante una recente presentazione mi è stata fatta una domanda simile, e un mio amico si è rammaricato perché non ho parlato della Raffo, che, per chi non lo sa, è la “birra nazionale” di Taranto. Mi dai l’occasione per riparare, quindi rispondo la Raffo! Poi, per non passare per cialtrone assoluto, aggiungo la luce, il mare e i ricordi evocati dai luoghi.
Azzurra Scattarella
Pugliesi fuorisede/13: intervista a Raffaello Ferrante
Caporedattore per Mangialibri, Raffaello Ferrante, originario di Bari, ha partecipato al grande romanzo collettivo In territorio nemico (minimum fax, 2013), realizzato con il metodo SIC. Ha pubblicato il romanzo Orecchiette christmas stori (’roundmidnight edizioni, 2014), il racconto Il lavoro logora chi ce l’ha (Centoautori, 2007) e vari altri su antologie – Marchenoir (Italic peQuod, 2012), Gli schizzati (Photocity, 2012), Frammenti di cose volgari (BooksBrothers, 2009), Rien ne va plus (Las Vegas, 2009), Neromarche (Ennepilibri, 2008), e altri editi da Giulio Perrone editore – e su riviste e quotidiani – Inchiostro, Colla, Prospektiva, L’Attacco.
Spiegami innanzitutto il titolo del tuo ultimo libro (Orecchiette christmas stori).
Originariamente il titolo era La vigilia, un titolo che raccontava da solo l’attesa, la speranza in un cambiamento che tutti i protagonisti affidano esclusivamente al proprio destino. La vigilia di Natale – ma poteva essere quella di capodanno, della befana o di una qualsiasi festa comandata – diveniva così per loro semplicemente il pretesto, l’occasione per fare i conti finalmente con se stessi, con le loro fallimentari esistenze. Però pur racchiudendo bene tutto questo era troppo freddo per una location come Bari. Io volevo infatti nel contempo raccontare anche la Bari natalizia dei quartieri popolari, quella dove l’odore di frittura e mandarini si mischia a quello della polvere da sparo dei botti già da ottobre. Questa Bari underground e sudamericana aveva bisogno perciò di un titolo più evocativo, che immediatamente fotografasse l’immagine che avevo. Il tutto cercando una musicalità giusta, orecchiabile, un sound che riecheggiasse una certa America da emigranti, quella dei nomi storpiati alla Totò e Peppino. E non a caso il titolo non è il corretto Orecchiette christmas stories all’inglese, ma l’equivalente Orecchiette christmas stori alla barese.
Come mai hai deciso di scrivere un romanzo?
Non è che ho deciso a tavolino di scrivere un romanzo. Fino ad allora infatti avevo scritto soprattutto racconti per antologie o riviste. Oltre alla splendida avventura della Scrittura Industriale Collettiva ideata da Vanni Santoni e Gregorio Magini, coronata poi da In territorio nemico pubblicato da minimum fax. È capitato però che mi si è infilata in testa ad un certo punto una storia, una suggestione, figlia di letture o film che in quel periodo magari avevo assorbito. E così ho incominciato ad immaginare i vari personaggi, l’ambientazione, la collocazione temporale e il mosaico pian piano è andato componendosi da solo. Alla fine mi son trovato con una storia che in effetti è talmente snella e asciutta che non so neppur io se può essere considerata un racconto lungo o un romanzo breve.
Lettore assiduo, caporedattore per Mangialibri, impiegato al bingo. Come si coniugano queste anime?
È la perfetta sintesi del serial killer, infatti. Lettore lo sono diventato anche tardi, sicuramente dopo i vent’anni. Ma da allora non mi sono più fermato. Anzi ho cercato di recuperare il tempo perduto aumentando in maniera esponenziale il numero di letture annuali (anche grazie a Mangialibri). Poi dopo l’università ho avuto l’occasione di entrare a far parte del dorato mondo delle sale bingo che nel frattempo erano sbarcate in massa in Italia, e mi ci sono tuffato. Solo che come uno dei cinque protagonisti del mio romanzo, ho capito subito che qualcosa, rispetto alle mie aspettative iniziali, lì dentro non quadrava.
E quindi ti sei trovato a lavorare al bingo…
Come ti dicevo nel 2001 improvvisamente in Italia è arrivato il business delle sale bingo. Fior fior di imprenditori ci si sono tuffati riciclando immediatamente teatri, vecchi cinema e trasformandoli in sale bingo. L’idea sponsorizzata era quella di creare luoghi di aggregazione per famiglie all’insegna della vecchia tombola. Nella realtà le cose sono andate in maniera differente. La clientela tipo non era affatto l’allegra famigliola coi fagioli da mettere sulle cartelle e il nonno sordo che chiama i numeri della ‘smorfia’, ma si andava nel migliore dei casi da giocatori incalliti e incancreniti, avvelenati e frustrati in maniera proporzionale al decrescere delle vincite, fino nel peggiore dei casi ai boss della malavita locale in persona. Nel mezzo tutta una fauna di personaggi, che folkloristici è dir poco, di una Bari parallela a quella che scorreva al di fuori di là.
Poi hai cominciato a collaborare per Mangialibri.
Con Mangialibri è nato tutto per caso. Credo di aver trovato un annuncio da qualche parte sul web di ricerca di redattori per recensioni. Da là all’amore a prima vista col ‘Capoccia’ David Frati, è stato un attimo! In realtà Mangialibri è stato fondamentale per ampliare le mie letture anche verso generi nei confronti dei quali magari in precedenza ero un po’ snob, o che mai avrei pensato da lettore di comprare (ricordo per esempio Gratis, un saggio bellissimo di Chris Anderson che senza Mangialibri non avrei mai incontrato), ma è stato importantissimo anche per la scrittura, grazie alla rete di contatti con quel mondo dell’editoria che dal di fuori, fino ad allora, hai solo idealizzato e/o demonizzato in modo errato.
Come sei finito a lavorare e vivere a Fermo?
È stato il corso della vita a portarmi nelle meravigliose Marche – che in realtà però avevo ‘puntato’ già da parecchi anni –, e devo dire che Fermo è diventato per altro un ottimo punto di osservazione per la mia amata/odiata Bari.
Mi hai detto che lavorare al bingo del quartiere San Pasquale di Bari è stata una palestra di vita. Quanto di quello che hai scritto è più o meno vero?
Le vicende sono chiaramente state inventate in funzione della storia che volevo raccontare, ma il ‘colore’ degli attori non protagonisti, quelli che fanno da tappezzeria alla sala bingo sono certamente se non reali, verosimili. Il capitale (dis)umano concentrato là dentro dall’apertura fino alla chiusura è stato sicuramente una grossissima fonte d’ispirazione. Era un po’ come essere costretti a rimanere chiusi nella casa del Grande Fratello con boss, scippatori, ergastolani e rapinatori. Oltre ai ‘semplici’ giocatori, quelli che pur di provare il brivido della vincita si umiliavano a giocarsi bingo di pochi spicci fino alle quattro di mattina.
Ammettilo: sei anche tu un bingo-addicted?
Non solo son sempre stato il tipo che fin da bambino schifava persino la tombola e il giro a sette e mezzo coi parenti, ma lavorando in quell’ambiente, tra i giocatori incalliti, quel barlume di possibilità che magari era segregato in qualche angolo recondito della mia parte più biscazziera, è stato definitivamente sopraffatto. Quando vedi signore dell’età di mia madre ravanare come tossiche nella borsa in cerca degli ultimi spicci per portarsi a casa cinque euro di bingo, ti assicuro che ti passa qualsiasi tentazione!
Il tuo libro è molto diretto e realistico. Quali sono gli scrittori che senti più vicini e che ti sono stati utili nella composizione del testo?
Lo stile è certamente il condimento adeguato per la storia in quel determinato scenario. In altri racconti il mio stile era meno crudo e diretto. Non ho avuto quindi riferimenti letterari specifici a cui ispirarmi durante la stesura ma sicuramente il romanzo è nato anche grazie ad un paio di libri (Montezuma airbag your pardon di Nino D’Attis e L’ultimo capodanno dell’umanità della raccolta Fango di Ammaniti) che per motivi diversi mi han fatto venire voglia di raccontare proprio quella storia, e di un film che credo abbiamo visto in pochissimi, Camerieri di Leone Pompucci, che raccontava le gesta di un nugolo di camerieri costretti a giocarsi nell’ultimo loro servizio ai tavoli, il tutto per tutto. Ecco, il mix di queste tre storie è un po’ il progenitore di Orecchiette christmas stori.
Questo è stato il tuo primo romanzo pubblicato. Come sei entrato in contatto con la casa editrice?
La gestazione è stata lunga e infruttuosa per anni. Nell’attesa di risposte dalle case editrici a cui l’avevo spedito, ho continuato, spinto dai consigli preziosissimi di scrittori e addetti ai lavori a cui l’avevo fatto nel frattempo leggere (Roberto Saporito, Giuliano Pavone e Vanni Santoni su tutti), a modificarlo e migliorarlo, finché nella nuova e quasi definitiva versione, grazie sempre a Mangialibri, ho conosciuto quel pazzo scellerato di Domenico Cosentino, editore nel frattempo della neonata ’round midnight, che ha sposato immediatamente il progetto (e io immediatamente il loro, dopo aver letto i testi dei primi autori pubblicati, De Silva, Signor, Gianelli, tutta gente senza fronzoli e paillettes letterarie, che ama viceversa raccontare storiacce vere, puzzolenti di strada, sempre col coltello dell’ironia tra i denti) e in pochi mesi, dopo un lavoro importantissimo di editing sul testo, ha mandato in stampa il romanzo nella collana Little Walter rilegandola in questo formato dal gusto retrò, fin troppo fine e stiloso per il contenuto acido e pop-pulp del romanzo.
Hai qualche altra storia pronta? Magari un uovo editoriale-pasquale?
No. Pasqua rispetto a Natale è innocua e indolore per il mio stato mentale e dunque non si merita un romanzo manifesto per demolirla. A pare gli scherzi, al momento non ho nessuna storia su cui sto lavorando se non una mezza e vaga idea tutta da plasmare. C’è però un racconto (dove torno a raccontare una Bari acidissima) che ho scritto per Inchiostro di Puglia, il blog ideato da Michele Galgano che illustra la Puglia attraverso i racconti e le voci dei suoi più prestigiosi (a parte il sottoscritto) autori. Un’idea che ho sposato immediatamente contagiato dall’entusiasmo di Michele e dal valore assoluto delle penne che via via stanno collaborando al progetto.
Leggendo le recensioni al tuo libro ho trovato spesso due aggettivi: pop e pulp. E tu, cosa pensi, ti definisci più pop o più pulp?
No, quale pulp. Sono un placido e pigro signore di quasi mezza età che nutre una sana avversione per gli ‘e vissero felici e contenti’, questo sì, perché credo fortemente che scrivere non significhi sognare o far sognare, per quello c’ho Mastercard, ma riflettere, elaborare, raccontare ciò che ci pulsa quotidianamente attorno e attraverso le vene.
Azzurra Scattarella
Pugliesi fuorisede/12: Intervista a Lucia Tilde Ingrosso
Lucia Tilde Ingrosso, giornalista professionista nella redazione di Millionaire, ha pubblicato una quindicina di libri fra gialli, rosa, umoristici, guide. Della sua serie di gialli milanesi con protagonista l’ispettore Rizzo uscirà a breve il quinto capitolo. Tra i suoi titoli: A nozze col delitto, Io so tutto di lei, Uomo giusto cercasi, Milano in cronaca nera (con Giuliano Pavone) e Curriculì curriculà (con lo pseudonimo di Assunta Di Fresco, insieme a Enza Consul). Info: http://www.luciatildeingrosso.it/prova/index.php?sez=1
Hai origini salentine, precisamente di dove sei?
Campi Salentina, provincia di Lecce. Mio nonno era di lì. Faceva parte di una famiglia numerosa ed era il fratello scelto per fare il prete. Ma lui non voleva e così è “scappato” a Milano, dove poi è nato mio padre.
Come definiresti il tuo legame con la Puglia e il Salento?
Bello, molto intenso. Nata a Milano, ho vissuto vent’anni in Toscana (Cortona, AR), sono tornata a Milano. Dico sempre che mi sento italiana al 100%.
Quante volte ci sei stata – e quanto spesso ci torni?
Negli anni dell’università, passavo almeno un mese di vacanze estive nel Salento. Base Campi e poi al mare a Casalabate e Porto Cesareo e in gite in mezza Puglia. Da quando sto con Giuliano Pavone (11 anni), vacanze estive a lido Gandoli, a due passi da Taranto.
Hai sposato un pugliese: caso o destino?
Chissà… Eravamo entrambi tornati single da poco ed entrambi in vacanza in Puglia, così un’amica comune decise di farci incontrare. Fu un colpo di fulmine fra muretti a secco e serate di pizzica. A unirci, nel tempo, tante passioni comuni come il mare, il calcio e la scrittura.
Hai scritto diversi gialli, tra cui uno molto particolare uscito in pasticceria, un romanzo rosa, romanzi umoristici, alcune guide alternative (101 cose da fare in gravidanza e prima di diventare genitori, 101 cose da fare in Lombardia almeno una volta nella vita, Curriculì Curriculà) ma qual è il genere che senti più tuo? E come spieghi questa evoluzione ed espansione nel tuo modo di scrivere?
Da giornalista (lavoro nella redazione del mensile di business Millionaire), sono abituata a piegare la scrittura a seconda degli obiettivi, dei generi e di quello che desidero raccontare. Ma la mia vocazione principe è quella per il giallo. A breve uscirà il quinto capitolo della serie dell’affascinante ispettore Sebastiano Rizzo. Molti lettori si sono affezionati e per me è diventato quasi uno di famiglia! Mi piacciono le mille possibilità date dal giallo: raccontare una città, intrattenere i lettori, inventare e sciogliere enigmi, soffermarsi sugli aspetti psicologici…
Hai scritto anche a due mani con tuo marito; come funziona questo tipo di scrittura, vi sedete insieme, vi aggiornate strada facendo, vi suddividete compiti/capitoli?
A casa, lavoriamo a due scrivanie adiacenti, ma possiamo stare anche delle mezz’ore in silenzio. E poi capirci con uno sguardo. Sì, ci piace molto suddividerci il lavoro e poi revisionare la parte dell’altro. Attualmente, stiamo preparando una guida su quello che si può fare a Milano con i propri bambini, ma in passato abbiamo scritto delle nostre esperienze di cercatori di case, genitori, turisti. Per noi scrivere è un piacere e farlo insieme è un piacere ancora più grande… Adesso abbiamo preparato insieme un corso di scrittura, per insegnare alle persone a ottenere i propri obiettivi, personali e professionali, grazie alla scrittura. Le lezioni si terranno a maggio a Milano.
Nel tuo sito si legge: “Lucia si laurea in economica aziendale alla Bocconi, con una tesi sul marketing librario. Pensa che l’editoria sia il suo futuro e non ha tutti i torti.” Da questo deduco che, sin da prima di diventare giornalista e di pubblicare, scrivessi per conto tuo.
Ho sempre avuto una vena narrativa. Il mio primo racconto l’ho scritto a 10 anni, con una macchina per scrivere Olivetti, ispirandomi a un libro di Salgari. Il primo romanzo, letto solo dagli amici, raccontava gli anni dell’università Bocconi.
Quali sono state le tue fonti di ispirazione letteraria?
Tante, variegate. Bisogna leggere per imparare a scrivere. Acquisire quelle sensibilità e musicalità che possono fare la differenza. Citerei Oscar Wilde, Agatha Christie, Cornell Woolrich, Stefania Bertola e Massimo Carlotto.
Com’è stato il tuo viaggio/lavoro come inviata da Budapest?
Un’esperienza stupenda e l’inizio della mia collaborazione con Millionaire. Consiglio a tutti un soggiorno di vita e lavoro all’estero.
Approfitto della tua esperienza nel campo e ti chiedo un’illuminazione a nome di tutti i ragazzi/e che cercano lavoro: quali sono, secondo te, gli errori più comuni che si commettono quando si compila un cv?
Non rileggerlo e quindi infarcirlo di refusi. Mandare Cv fotocopia uguali per tutti, senza invece personalizzarlo di volta in volta. Non far emergere qualità e obiettivi personali, che sono ben più importanti di studi ed esperienze. Piangersi addosso. Essere ridondanti. Consiglio poi di non trascurare la forza dei social e quella del passaparola.
Secondo te è vero che i giovani italiani sono choosy?
No. Gli italiani sono forti, fortissimi. Specie i più giovani. Il periodo è nerissimo, ma passerà. E nel frattempo emergeranno i migliori. E i più coraggiosi. Oggi è difficile trovare qualsiasi tipo di lavoro (al contrario di qualche anno fa, quando un posticino in banca o alle Poste non te lo negava nessuno). E quindi tanto vale impegnarsi per fare il lavoro dei propri sogni.
Azzurra Scattarella
Pugliesi fuorisede/11: Intervista a Michele Galgano
Classe 1977, Michele Galgano (il secondo da sinistra nella foto) è nato a Gioia del Colle, ma cresciuto a Castellaneta. Dal 2001 si trasferisce a Milano, dove trova lavoro per una multinazionale del settore energia occupandosi di numeri. Ama i social network, la lettura e la Puglia. Gestisce il blog e il gruppo Facebook dei Castellaneti a Milano e ha lanciato la neonata iniziativa Inchiostro di Puglia.
Michele tu sei l’animatore (oltre che ideatore con Marilia Fico e Tiberio Ludovico) di Inchiostro di Puglia, neonato progetto di scrittura collettiva sulla Puglia. Come è nata quest’idea?
Un giorno la mia amica Marilia mi chiama e mi fa: «Ho letto il libro di Renato Nicassio, Un moderato delirio, devi assolutamente leggerlo, è bellissimo! Te lo presto, anzi no, devi comprarlo, bisogna aiutare i giovani scrittori…». Quindi ho letto il libro, che mi è piaciuto moltissimo; contemporaneamente ho conosciuto Giuliano Pavone, scrittore e giornalista de «Il Quotidiano di Puglia», che mi ha fatto un’intervista per il gruppo social dei Castellaneti a Milano, e allora mi è venuta un’idea. Ho pensato che, dato che siamo tutti del Sud, che conoscevo un’altra giovane scrittrice, Angelica Rubino, che mi sarebbe piaciuto promuovere, si poteva organizzare un evento in cui ci fossero sia Nicassio sia la Rubino sia Pavone. E visto che per le feste di Natale saremmo scesi tutti, si poteva organizzare lì in Puglia.
E infatti così è stato. Abbiamo organizzato – con Marilia e Tiberio, che oltre a essere un amico, fa il pubblicitario – un evento alla libreria Nomine Rosae di Castellaneta, il 21 dicembre scorso, con loro come ospiti. L’evento è andato molto bene, ha avuto un ottimo riscontro, ci hanno fatto tanti complimenti e noi ci siamo divertiti. E poi Tiberio aveva creato questo nome bellissimo Inchiostro di Puglia, ci pareva un peccato non riutilizzarlo più, perciò abbiamo pensato a un modo per continuare a farlo vivere.
Quindi è nato il blog…
Sì, è nato questo blog http://www.inchiostrodipuglia.it/ che vuole diventare una sorta di mappa narrativa della Puglia. Ogni città un racconto. Ovviamente inedito e scritto da un autore pugliese.
Avete appena iniziato a postare qualcosa.
Sì, il primo articolo è uscito qualche giorno fa. L’ha scritto Maurizio Cotrona, è un po’ più lungo degli altri perché serve anche da introduzione. Nell’incipit c’è l’Ape Tre Ruote, che da noi in Puglia è ancora usato (mentre a Milano è inesistente), ed è una metafora, lo usiamo per spostarci da una città all’altra, è un filo conduttore scherzoso per spostarci tra le varie località con un mezzo non proprio comodo ma sicuramente rappresentativo. Al momento ben trenta autori hanno già accettato di far parte del progetto, e tutti quelli che ho contattato hanno detto subito di sì, con entusiasmo.
Il progetto al momento è “solo” un blog, ma qual è il suo scopo, effettivamente?
Innanzitutto, promuovere i nostri scrittori, perché non è possibile che ogni volta che si parli di Puglia si parli solo di mozzarelle, olio e olive – quando poi abbiamo un sacco di autori. Naturalmente, anche quello di promuovere la letteratura in generale, che in Italia fa sempre bene. E poi, quella di promuovere la nostra regione, le sue città, paesaggi… Ovviamente, non racconteremo solo le cose belle, eh, ma tutto: anche l’Ilva di Taranto, il Salento che si è reinventato per il turismo, le realtà di Bari, il Gargano. Insomma, tutto ciò che i nostri scrittori vorranno raccontare. Ogni due settimane circa con un nuovo pezzo faremo il giro della Puglia. Poi, non so, magari ci saranno altre presentazioni, incontri, sotto questo nome… vedremo. Al momento, l’obiettivo è scriverne una cartografia letteraria.
Non eri nuovo alle realtà collettive e ai gruppi: come accennavi prima, anni fa, hai fondato il gruppo dei Castellaneti a Milano.
Sì, è un blog (http://castmil.weebly.com/blog.html), ma anche gruppo di oltre 200 iscritti su Facebook molto vivo e ricco di persone validissime, che io gestisco dal punto di vista dei contatti, mentre alcuni amici suggeriscono articoli interessanti, link e post da condividere. Tutto è nato ascoltando la canzone Una cascia di Raffo del cantautore tarantino Alessandro Guido, che descrive la tipica azione del pugliese che vive al Nord che si porta da giù una cassa di birra Raffo, tipica di Taranto, come se non ci fossero altre birre a Milano… Questo gesto nostalgico e assurdo, mi ha fatto pensare che magari si poteva fare qualcosa di più per noi che non abitiamo più in Puglia e che siamo lontani chilometri e chilometri, anche perché ce ne sono tantissimi di pugliesi qui a Milano. È una vera e propria rete, serve a scambiarsi informazioni, a darsi una mano per gli spostamenti, farsi recapitare pacchi, darsi passaggi. È una sorta di gruppo di mutuo soccorso, ma anche un modo per conoscere persone nuove e mantenere i legami con le proprie origini. Per me è una passione e una soddisfazione, vedere come le persone si incontrano, aiutano e condividono, specie in città come Milano, dove non è tutto semplice, la famiglia è distante e avere una rete di supporto può migliorare la qualità della vita e aiuta a non venire risucchiati dalla metropoli, il lavoro, il caos…
Una domanda personale, da pugliese fuorisede a pugliese fuorisede: dove ti vedi tra vent’anni?
È una domanda che mi faccio spesso. Mi accorgo che siamo più attaccati noi che andiamo via di quelli che rimangono: paradossale ma è così! Milano mi ha dato tanto, realizzazione personale e professionale, la mia compagna è di qui… ma il cuore rimane in Puglia. Sinceramente, non lo so. Ma se mi fermassi costantemente a pensare a dove sarò, cosa farò, ecc. probabilmente vivrei male.
Azzurra Scattarella
Pugliesi fuorisede/10: Intervista ad Andrea Coccia
Giornalista pubblicista, nato il 15 dicembre 1982 a Milano, Andrea Coccia gestisce la sezione Letteratura e Fumetti della pagina culturale de Linkiesta.it (LKcultura). Ha fondato la rivista letteraria El Aleph, ha scritto di libri su Booksblog, Grazia e Saturno (Il Fatto Quotidiano) e di un po’ di tutto su ilPost.it. È stato redattore della rivista di satira sociale L’antitempo (Premio Satira Forte dei Marmi 2013) e dal 2010 fa parte del collettivo omonimo. Sta lavorando a un fumetto e a un progetto pazzo insieme a Vito Manolo Roma. Tifa Inter, ha due malattie che si chiamano Jorge Luis Borges e Sergio Leone e ogni tanto si sente un po’ Billy the Kid.
La tua pugliesità è solo nelle origini paterne, diciamo che sei un outsider in questa rubrica. La prima domanda che ti rivolgo è quindi che tipo di legame senti verso la terra di tuo padre?
Sento un legame forte, ma è molto più ideale che reale. In Puglia sono andato poche volte, la famiglia di mio padre è tutta su ormai. Giù non c’è più quasi nessuno. Sembrerà una boutade, ma sono fiero di essere mezzo pugliese, anche perché se non lo fossi, non sarei un vero milanese.
Descrivici il tuo lavoro attuale.
Gestisco, insieme a Giulio D’Antona e Jacopo Colò, la pagina culturale de Linkiesta.it, occupandomi principalmente di Letteratura italiana e fumetti. Sto anche lavorando a due progetti illustrati con mio fratello Vito Manolo Roma, tra l’altro anche lui mezzo pugliese. Uno è un fumetto con protagonista Luciano Bianciardi, l’altro è una specie di dizionario di un gergo usato a Milano a partire dagli anni Ottannta, il Riocontra.
Il progetto editoriale di cui vai più fiero.
Da una parte El Aleph, una rivista letteraria che ho fondato con alcuni compagni di università nel 2004, e che ha rappresentato l’inizio di un sacco di cose. Dall’altra L’antitempo, una rivista di critica e satira a fumetti che ho contribuito a realizzare insieme a Vito Manolo Roma, Matteo Rubert, Giacomo Rastelli, Giacomo Sargenti e Davide Caviglia, un progetto che quest’anno è stato premiato con il premio Satira di Forte die Marmi, cosa che ci ha resi tutti molto orgogliosi. Insomma, per me come i due rami della famiglia, sono fondamentali entrambi.
Sei volontario al Festivaletteratura da tanto tempo. Cosa ti spinse a farlo anni fa?
La curiosità, soprattutto, ero attratto pazzescamente dal mondo di chi i libri li fa e volevo viverci in mezzo. È stata una delle scelte più felici che ho fatto nella mia vita, tra l’altro. Ho imparato più a Mantova in 10 edizioni di festival che nei ventanni che ho passato tra i banchi di scuola e università.
Secondo te per quale motivo un evento come il Festivaletteratura ha tanto successo in Italia (anche quest’anno biglietti esauriti, vendite alte dei libri proposti), dove non si legge quasi per nulla? Sembra quasi contraddittorio…
Prima di tutto non è vero che in Italia non legge nessuno. Circa la metà degli italiani legge almeno un libro all’anno, e sono milioni di persone. Gran parte delle quali hanno tra i 50 e i 60 anni e vivono nel nord del paese. Come può stupirmi, sapendo questo, che un evento che si tiene a Mantova e che è soprattutto affollato di 50-60 anni registri sempre il tutto esaurito? La cultura interessa moltissimo a tante persone, è solo che se queste persone le bombardi con 60mila titoli all’anno e le mandi in librerie-discount in cui vengono loro propinati libri letteralmente a caso. Be’ è chiaro che i libri si faccia fatica a venderli.
Cosa ne pensi dei blog letterari italiani? Quali sono quelli che segui? Secondo te sono davvero imprescindibili per chi lavora nell’editoria?
Di blog ce n’è di ogni tipo: ci sono quelli strepitosi, che affrontano la letteratura con passione e divertimento, come Finzioni o Con altri mezzi, e poi ci sono quelli che potrebbero tranquillamente non esistere, che sono assolutamente non interessanti e ombelicali, come Tazzina di caffè, per esempio. Nulla è imprescindibile per chi lavora nell’editoria, se non una cosa che si dà troppo spesso per scontata: essere interessati a ciò che si fa per il gusto di farlo, e di farlo bene, non soltantto per poter dire di averlo fatto
Uno dei ruoli che hai ricoperto è il social media manager. Definizione sempre più in voga, ma che magari risulta ancora poco chiara ai più. Ti va di spiegare ai lettori che cosa fa il SMM, o almeno cosa facevi tu quando lo hai fatto per l Festivaletteratura di Mantova e per Le corde dell’anima, Festival di letteratura e musica di Cremona?
Il social media manager comunica il festival (ovvero gli eventi, i temi e gli autori) attraverso l’uso di strumenti come Twitter, Facebook, Pinterest, Instagram etc… detti anche social media, o social network. È una tipologia di comunicazione/marketing che si è ormai diffusa in ogni settore, non solo nell’editoria, perché ha il vantaggio di creare – o dare la parvenza di creare – un rapporto con il pubblico diretto, più personale, anche nei toni e nel linguaggio. Ho sentito dire da alcuni che il social marketing potrebbe rappresentare una rivoluzione copernicana nel mondo del marketing. Mi spiego: se prima era l’azienda a inseguire il proprio pubblico con pubblicità e comunicazioni più o meno dirette, ora, quando fatto bene, è il pubblico che vuole seguire la marca, perché la marca diventa un personaggio, con una sua personalità, i suoi gusti e una sua voce.
Secondo te, chi fa live tweeting durante gli eventi (ma anche durante film, spettacoli, programmi tv) si perde o meno qualcosa – non hai il tempo di metabolizzare ciò che accade che lo stai ancora/già commentando o rispondendo.
Il live tweeting, quando è divertente e quando crea un livello supplementare allo spettacolo che stai twittando (tv, concerto, festival non importa) credo sia interessante, se è obbligato e non aggiunge nulla, ripetendo qualche frasetta, be’ allora è una perdita di tempo.
Azzurra Scattarella